PREVENZIONE E CONTRASTO DELLA VIOLENZA SULLA DONNA.
Il grave motivo di questo Convegno a Roma – La violenza sulla donna (21-11-24) al quale sono stato invitato – dal momento che diventa oggetto di analisi psicologica si inquadra in termini di psicopatologia, devianza, comportamento abnorme, malattia mentale… ma ecco che il termine malattia desta sospetti e fa storcere il naso, quasi fosse un termine giustificatorio di atti criminali. Di certo non è così, come per qualsiasi crimine l’indagine a livello psichiatrico e psicopatologico sui moventi, i processi mentali, i profili personologici, viene richiesta nella prassi giuridica, ed è altresì importante per il legislatore; inoltre è necessaria nel determinare casistitiche e poi tipicità e modalità della violenza di genere per i fini di contrasto e di prevenzione (per cui criminologia e psicologia diventano confinanti e si scambiano preziose riflessioni e informazioni).
Qui consideriamo specificamente l’odioso reato della violenza sulle donne che viene agita tra persone legate da rapporti affettivi e famigliari. Del resto l’evidenza dei fatti e dei dati rivela che le vittime della violenza di genere sono massimamente donne – lo sappiamo, ma questa premessa va sottolineata per meglio focalizzare il senso della riflessione che vado di seguito a proporre, in quanto clinico e ricercatore con specifica esperienza sulle problematiche e disturbi della relazione erotico-affettiva.
Per prevenire e curare occorre innanzitutto diagnosticare e comprendere le cause di ogni malattia. Seppure non si vuol parlare di malattia, ma di fenomeni abnormi e devianti nel crimine, comunque per poterli combattere e sradicare è necessario indagare sulla catena di cause ed effetti, così come sulle nefaste coincidenze del fato, che conducono al manifestarsi della distruttività umana. La psicologia ha analizzato la distruttività umana da molteplici punti di vista. In senso evoluzionistico come una deviazione disfunzionale degli psicofisiologici meccanismi di attacco e fuga, nei confronti di umani o animali, in quanto assalitori o ostacoli alle proprie possibilità di conservazione, sussistenza e crescita. La psicopatologia attraverso vari modelli di tipo fenomenologico e nosologico ha poi indagato sulle degenerazioni dell’aggressività in relazione a specifici vissuti psichici disturbati e quadri di personalità. Comportamenti aggressivi e distruttivi abnormi vengono considerati nel quadro delle psicopatie, dei disturbi antisociali, del narcisismo maligno, nei quadri borderline e sindromi di carattere psicotico e maniacale.
UNA MALEDIZIONE MASCHILE CHE COLPISCE LE DONNE
Se ammettiamo che nel maleficio della violenza sulle donne sia implicato anche, o almeno in parte, da un qualche disturbo psichico di chi lo commette, dobbiamo osservare che si fa a fatica a individuare classificazioni nosologiche veramente significative, se non quando l’atto criminale contro una donna è compiuto da una persona con conclamati disturbi mentali e quindi con incapacità di intendere e di volere durante l’atto, ma anche in una circostanziata fase ad esso precedente. I profili tipici dell’offensore – che mette in atto minacce, molestie, atti persecutori, percosse, sfregi e femminicidio – risultanti da indagini psichiatriche e dalle stesse testimonianze di parenti e conoscenti, molto spesso escludono l’evidenza di una qualche psicopatologia o di una qualche condotta aberrante, dalle quali si poteva presumere la messa in atto di violenze più o meno gravi, al punto di averle poi perpetrate e persino premeditate fino alla crudeltà e ad esiti fatali. Nel caso orribile del femminicidio, capita spesso che parenti e conoscenti consideravano che il femminicida fosse un ‘uomo normale’, se non un bravo ragazzo. Oppure, se si tratta di un malvivente, questo non implicava necessariamente che avesse potuto commettere violenza contro la donna, e in particolare verso una donna della sua famiglia, ovvero la moglie o la compagna. In effetti non sempre si riescono a cogliere e a soppesare i segnali di processi relazionali disturbati uomo-donna che possono portare ad esiti tragici e fatali. Vi sono poi dinamiche croniche di conflittualità, dove il legame di coppia o coniugale diventa un inferno che, pur in assenza di violenza fisica opprimono la donna in termini di violenza psicologica, ponendola in una straziante condizione di subalternità. Purtroppo capita che tale condizione di oppressione venga spesso sottaciuta e sopportata dalle donne stesse che la subiscono, le quali la considerano quasi come un destino ineluttabile pur di preservare legame affettivi e famigliari. Ecco allora che dobbiamo distinguere tra violenza fisica e psicologica, ma nel campo delle relazioni affettive e di parentela si tratta pur sempre di due dimensioni fortemente integrate.
A riguardo dei maschi violenti contro le donne, in termini psichici e/o fisici, va però osservato che è piuttosto raro venire a sapere che stessero seguendo percorsi di cura psichiatrica e/o psicoterapica, e questo fa pensare che una maggiore offerta acessibile ai servizi per la salute psichica, promuovendoli anche attraverso campagne di sensibilizzazione rivolte agli uomini, potrebbe contenere e drenare la tragedia dei crimini di genere contro le donne. Ed è su questo punto che alla fine del presente articolo intendo porre l’accento e fornire un qualche input in termini di ricerca e operatività. La violenza maschile non solo va contrastata con la forza e i provvedimenti della legge, ma va anche curata, cominciando dall’educazione e poi attraverso centri e percorsi di prevenzione specializzata, che potrebbero costituirsi come specifiche unità di ascolto e sostegno da integrare o da affiancare agli esistenti Centri antiviolenza sulle donne. Ora però iniziamo un breve percorso sulle possibili cause psicologiche e psicoculturali della violenza maschile contro le donne.
ISTINTI E COMPLESSI MORTIFERI NEL MASCHILE
Nei crimini contro la donna i disturbi della sfera psicologica devono essere considerati a livello intrapsichico, nell’offensore così come nella vittima, e quindi anche nella dinamica relazionale. E’ evidente che ogni caso ha una sua specifica soggettività, ma è altresì importante individuare questioni di ordine costitutivo e relativamente universale che possono essere alla radice di ogni violenza maschile contro la donna, in particolare contro la moglie o la compagna. Una questione psicologica generale quanto evidente, è una efferata conversione nell’uomo di sentimenti erotico-affettivi in aggressività, odio e quindi l’assunzione di condotte volte a dominare e sottomettere la partner, attraverso abusi e violenze di tipo fisico e/o psicologico. Ora si potrà osservare che una qualche conversione di sentimenti amorosi in odio è qualcosa che, entro certi livelli e in certe transizioni e crisi di coppia, fa parte a diversi gradi di intensità della vita erotico-affettiva – insomma si litiga e ci si detesta a vicenda, non ci si sente compresi, le accuse si accaniscono a senso unico, per cui o si giunge in qualche modo a riconciliarsi – talvolta anche con una necessaria terapia – oppure ci si separa, seppure dolorosamente. Ma quali possono essere i motivi psicologici o psicopatologici di base, per cui la fisiologica conflittualità nella coppia può degenerare in azioni e condotte violente e abusanti verso il partner? E poi quale sarebbe il motivo fondativo della specificità preminente della violenza maschile contro la donna?
Viene subito da pensare ad alcune considerazioni di ordine biologico, sociale e culturale. In termini biologici è evidente la maggior forza fisica del maschile, inoltre le attività della caccia e della guerra riservate ai maschi, ha potuto determinare una maggiore istintualità e propensione nell’impiego della forza violenta e della brutalità. Questo avrebbe anche comportato l’assunzione di un prepotente ruolo di dominanza verso il femminile. In termini sociali è evidente il maggior potere economico del maschile; in termini culturali si parla di mentalità arcaiche che vanno a determinare l’idea di una superiorità del maschile nei confronti del cosiddetto sesso debole (si pensi al dibattuto tema del patriarcato). In buona sostanza i maschi avrebbero maggiori poteri per cui avrebbero anche maggiori possibilità di impiegarli vigliaccamente contro le donne. Eppure ammesso che alla base della violenza sulle donne vi sia l’abuso di un eccesso di potere, ciò non spiegherebbe i motivi psicologici che indurrebbero ad impiegare tale potere in senso distruttivo. Di regola il potere per essere esercitato non ha bisogno di violenza, ma è quando lo si perde o si teme di perderlo che la tentazione o l’azione violenta cerca di preservare la supremazia e di contenere la perdita. Il potere dovrebbe consentire a qualunque persona, che sia di sesso maschile o femminile, di garantirsi una sua autonomia e indipendenza, e quindi di avvalersi in ogni conflittualità di strumenti difensivi e risolutivi che non implicano la degenerazione nella violenza.
Insomma, a ben vedere, non si capisce perché certi uomini, nel percepire la perdita di potere in una relazione di coppia, al punto di sentirsi intimamente feriti nell’orgoglio e nei sentimenti, e a prescindere dalle ragioni e dai torti, invece di rendersi autonomi e indipendenti separandosi dalla donna che li farebbe soffrire, debbano mettere in atto abusi e violenze volte a sottometterle, a tormentarle e persino a ucciderle. Così nelle condotte di stalking verso una donna, per quanto possano essere valutate a seconda della gravità e della costanza, è evidente che l’uomo non agisce rispetto ad un suo qualche potere naturalistico o culturale, ma in base alla sua debolezza, dovuta anche al fatto di sentire violato il suo diritto di possedere la compagna, senza alcuna considerazione della volontà e dei desideri di lei. Quella donna deve essere sua a tutti i costi… e se lei non acconsente dovrà essere punita anche con la morte. Ma vi è anche il caso che una donna possa acconsentire di sottomettersi al suo compagno persecutore e tuttavia ciò non eliminerebbe la violenza, anzi questa potrebbe essere esercitata come se fosse stata da lei legittimata. Anche le donne possono compiere stalking e mettere in atto molestie verso un uomo, tuttavia si tratta di azioni punitive che non hanno la pretesa di costringere l’uomo ad amarle, dato che sono in genere consapevoli di non potere indurre nel partner sentimenti attraverso l’oppressione – sentimenti considerati indispensabili per mantenere il legame. Invece l’oppressore maschio spesso considera di poter costringere una donna a sottomettersi al legame – a prescindere anche dai suoi sentimenti avversi – attraverso atti persecutori e minacce.
Entrano quindi in gioco dinamiche sadomasochistiche e di dipendenza in cui è quasi sempre l’uomo a diventare il carnefice che deve punire la donna, la quale non gli si concederebbe come dovrebbe o non onorerebbe abbastanza il suo supposto diritto di dominio maschile.
GELOSIE E POSSESSIVITA’ PERVERSE
La gelosia, come è ben noto, un sentimento fisiologico nella coppia, ma capita che essa diventi patologica e persino delirante. Allora qualsiasi supposizione, ancorché non possa appoggiarsi su un qualche elemento indiziale, induce la paura di essere traditi, non solo nella realtà, ma anche dai pensieri del partner. La gelosia diventa allora retroattiva e fantasmatica, il partner è un potenziale traditore con il corpo o anche solo con la mente, e quindi va ossessivamente controllato, inquisito, perseguito e punito anche preventivamente. La gelosia psicopatologica non è certo solo una iattura al maschile, dal momento che sussiste anche nel femminile, tuttavia essa può dare luogo ad atti violenti soprattutto nel maschile, dal momento che costituirebbe la violazione di una possessività maschilista, ovvero avente diritti considerati di ordine superiore.
Se vogliamo spiegarci l’eccesso di violenza al maschile solo in termini fisiologici, sociali e culturali, rientriamo nella contraddizione sopra considerata di supposti poteri legittimi che invece sono assai vulnerabili e fragili, dal momento che possono decadere troppo facilmente in ansietà, depressioni, perdita di controllo, e purtroppo anche in aggressività dissennata. Ma la psicologia ancora una volta ci invita a chiederci quale sia la specificità della violenza maschile in termini più profondi, ovvero se nella psiche maschile vi siano dispositivi archetipici costituzionali e innati che predispongono alla violenza contro le donne. Nell’inconscio dell’uomo a livello individuale e collettivo potrebbe dunque sussistere una predisposizione arcaica alla prevaricazione e alla dominanza verso le donne, che può indurre alla violenza contro di esse, predisposizione che la civilizzazione ha cercato di mitigare, ma che a tutt’oggi non risulta sradicata, e che per certi aspetti, nella misura in cui è archetipica, non potrà essere completamente sradicata. Un crudele destino psicogenealogico pare paventare che una società completamente purificata dalla violenza contro le donne non esisterà mai, salvo la possibilità di elaborare e raffinare modalità di contrasto e prevenzione sempre più efficaci.
Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che in termini archetipici si può ipotizzare che nell’inconscio collettivo vi sia una predisposizione maschile alla violenza contro le donne, in modo precipuo a danno di una compagna o di una donna verso la quale vi sia un vincolo affettivo e/o di parentela. In determinate condizioni di crisi della relazione, questo archetipo può attivarsi in un individuo maschile, e ciò anche a prescindere dal suo stato mentale nella coscienza attuale e in quella biografica. Va però osservato che maggiore è stata – nell’individuo e nella società – l’elaborazione a livello conscio e inconscio di tale archetipo potenzialmente femminicida, e minori o anche nulle sono le possibilità che l’archetipo sfoci in fantasie e coazioni violente sul piano di realtà. Una narrazione mitologica che sottende questo ‘archetipo istintuale deviato e antifemminile’ – può riferirsi al mito di Pan e dei Centauri, e di altri miti che frequentemente narrano di stupri – ma un’attenta analisi di queste narrazioni psicomitologiche andrebbe approfondita attraverso un orientamento della psicologia junghiana e hillmania, sul qualeci soffermeremo a conclusione dell’articolo.
Per ora diciamo solo che il mito greco dei Centauri, creature metà uomo e metà cavallo (raramente vi sono pure figure di donne centauro) si lega alla violenza volta a compiere razzie e allo stupro, messi in atto da orde e branchi, durante azioni di guerra e per obiettivi di devastazione predazione di popoli, comunità e gruppi (che esercitano lo stupro delle donne come corollario inevitabile di spietate azioni predatorie).
COMPLESSO MATERNO E RELAZIONI DISTRUTTIVE
Da un punto di vista psicoanalitico possiamo considerare, secondo Freud e poi secondo la Melanie Klein, che il primo rapporto di attaccamento ambivalente, costellato da spinte di amore e di odio, di desiderio, repulsione e aggressività è la madre. Il neonato e poi l’infante vive fantasie sentimenti assai contrastanti nell’attaccamento al materno. Percepisce la sua totale dipendenza dalla madre e per questo la teme. Una qualsiasi piccola mancanza della madre, un suo ritardo, una sua eventuale indisponibilità, viene percepita come una minaccia abbandonica o addirittura come un’aggressione. Persino eventi e sensazioni spiacevoli, come un mal di pancia o un fastidioso rumore – dei quali la madre è totalmente incolpevole – viene immaginato come una sua carenza o mancanza. Ecco allora che, soprattutto nella fase orale (come la chiama Freud) dell’attaccamento al seno (che caratterizza lo psichismo della primissima infanzia) la voracità e le pretese del lattante non danno tregua alla madre. La Melanie Klein, considerabile come la più importante esponente della “Teoria delle relazioni oggettuali” esamina come in ogni infante, di sesso maschile o di sesso femminile, vi sia una primaria “posizione schizoparanoide” di aggressività verso la madre, vissuta come oggetto ambivalente : “seno buono – seno cattivo” la quale andrebbe pertanto aggredita e distrutta laddove appare come ‘cattiva’. Fortunatamente l’infante non può permettersi passaggi all’atto realmente pericolosi, e tuttavia mette in atto una serie di comportamenti molesti e rifiutanti verso la madre. Nella fantasia viene attraversato da immagini distruttive alquanto cruente che nella maggioranza dei casi riesce a deviare su giocattoli, animali o rituali ludici. Ovviamente l’infante non è cosciente di tali processi, e successivamente alla posizione schizoparanoide passa alla posizione depressiva, vale a dire che prova una sorta di pentimento e di fantasie riparatorie della madre ambivalente che aveva fantasticato di distruggere. L’ambivalenza della madre è in linea di massima normale e fisiologica, ma per l’infante anche la minima apparizione di tale ambivalenza rappresenta una minaccia alla sua incolumità, ovvero un tradimento dell’oggetto che per le sue necessità fantastica deve risultare totalmente buono, quindi privo di ogni possibile ambivalenza. Va da sé che quanto più si persiste nella posizione schizoparanoide tanto più si sviluppano decorsi psicopatologici di diversa natura e gravità.
Per tornare alla vita adulta possiamo dire che tra i partner di una coppia, o anche nel quadro famigliare, una potente regressione alla posizione schizoparanoide può manifestarsi a livello transitorio, ma può anche assestarsi in modo cronico e poi sfociare in passaggi all’atto distruttivi, dato che a differenza dell’infante l’adulto è in grado di compiere violenze fisiche e psicologiche, in modo premeditato o anche nello scatenamento di pulsioni aggressive incontrollate. Ma sempre nell’adulto, se all’accesso di una posizione schizoparanoide segue una posizione depressiva, aa seconda della frequenza e della gravità di queste posizioni altalenanti può dare luogo a dinamiche di coppi difficili e disturbate. Quando la conflittualità si accompagna a frequenti comportamenti rabbiosi e a seguenti riparazioni la dinamica si cronicizza in una dimensione borderline, con un vicendevole e irreparabile clima di ostilità, rivendicazioni e colpevolizzazioni reciproche.
Se le cose vanno peggiorando o si va verso una dolorosa rottura della relazione, oppure possono insorgere abusi, violenze fisiche e psicologiche. La distinzione tra violenza fisica e psicologica viene determinata anche dal fatto che l’uomo rispetto alla donna ricorre più facilmente alla prima. Nella fantasia l’odio distruttivo non è di maggiore pertinenza in un genere piuttosto che nell’altro, ma possiamo dire nell’uomo vi è una maggiore inclinazione alla sua espressione violenta, in modo da recare nella donna danni biologici, sia fisici sia psicologici, finanche a giungere al femminicidio premeditato o in un accesso di collera sanguinaria.
Secondo Winnicott – altro celebre esponente della teoria delle Relazioni oggettuali – la madre dovrebbe essere “sufficientemente buona”, in opposizione alla madre troppo buona e alla madre cattiva, le quali vanno comunque a generare un COMPLESSO MATERNO, determinante disfunzionalità e disturbi nei figli, finanche nella vita adulta. Nel maschio adulto il “complesso materno” genera relazioni erotico affettive problematiche, disturbate e quindi anche francamente psicopatologiche. Nella concezione junghiana del “Complesso materno” vi è quindi una interpretazione che va oltre la concezione edipica della triangolazione di tipo freudiano, che prevede un’ansia di castrazione, data dalla minaccia della competizione con il padre. In un certo senso vi è invece assenza del padre e quindi invischiamento incestuoso e regressivo verso la madre, secondo molteplici diffferenti tonalità affettive disfunzionali.
La madre troppo buona provocherà di ottenere dalla compagna comportamenti ineccepibili quanto impossibili, dal momento che non consentono di redimere i conflitti nella mediazione. La madre cattiva provocherà esigenze estreme di compensazione, esigendo dalla compagna riparazioni insostenibili e persino rivendicazioni trasversali, facendole cioè pagare ciò che si ritiene di non avere avuto dalla madre. L’esacerbarsi di tali condizionamenti complessuali inconsce può condurre un maschio adulto a disfunzioni sessuali, di diversa natura, quindi a sindromi depressive e a rimuginazioni maniacali rabbiose e vendicative. In certi casi ne deriva il passaggio a strategie punitive, e a seconda della gravità ad effettivi atti distruttivi. Il punto è che, anche qualora una compagna avesse un comportamento a sua volta distruttivo, e persino maligno, ciò non dovrebbe portare in alcun modo a reagire con atti rabbiosi al punto di danneggiare la sua incolumità fisica, psicologica ed esistenziale – dal momento che è sempre possibile rinunciare alla relazione separandosi, seppure dolorosamente. Purtroppo, però, accede che i maschi adulti non riescano a distaccarsi per via di una ineluttabile dipendenza psicopatologica implicata dal complesso materno e quindi cedano ad una regressione carica di rabbia e di odio che poi giunge ad agiti violenti attraverso minacce, ricatti, molestie, atti persecutori finanche alla violenza fisica e al femminicidio. In sintesi tale distruttiva implica che la donna debba sottomettersi alla volontà maschile di possesso, altrimenti deve essere tormentata o persino uccisa.
Seppure questa situazione degenerativa e mortifera della relazione erotico-affettiva possa manifestarsi in entrambi i sessi, come ben si sa, il triste primato riguarda un malfunzionamento del maschile, con le conseguenze estreme che leggiamo nelle cronache di tutti i giorni alle quali si aggiungono quelle che restano ignote. Ho esaminato tale relazione in diversi libri e articoli indagando sul tema del Narcisismo distruttivo, proponendo l’ipotesi diagnostica di TdN (Trauma da Narcisismo) attraverso la figura del vampiro e quindi della vampirizzazione amorosa, come trasformazione della pulsione erotica in una reciproca collusione mortifera. Ciò però assume una connotazione ancora più devastante quando il maschile degenera dando luogo ad una istintualità distruttiva del femminile, fino al punto di ledere la sua incolumità fisica e persino a toglierle la vita.
E’ interessante ciò che afferma Freud in un suo saggio del 1912 sulla tendenza universale del maschile alla “degradazione della donna”, avente lo scopo di consentire alla carica libidica maschile di violentare le barriere poste da un irrisolto complesso materno. In molti giochi erotici perversi la compagna viene degradata a prostituta o costretta ad atti umilianti, affinché essa venga per così dire destituita dall’imago materna e quindi incestuosa che il maschile tende a proiettare su di essa. Entro certi termini si può parlare di trasgressioni erotiche condivise, ed aventi una funzione liberatoria in entrambi i partner. Ma quando la perversione diventa morale e va innestarsi su fantasie di dominazione e identitarie, per le quali il maschio sente il diritto di sottomettere la compagna, allora la relazione diventa patologica. Ecco quindi che nella misura in cui il patologico diritto di dominanza del maschile viene frustrato o negato, per il rifiuto netto della compagna o per una sua ambivalente indisponibilità, possono instaurarsi fantasie e atti distruttivi volti a punire la compagna, la quale non accetta o non può, diventare oggetto del complesso materno del partner, delle sue fantasie incestuose e delle sue devianze. Freud afferma nettamente: “Nelle donne praticamente non esiste il bisogno di degradare l’oggetto sessuale”.
RADICI ARCHETIPICHE DELLA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE
Eccoci giunti alla questione archetipica, cioè all’ipotesi che nel maschile possa sussistere una sorta di ‘tara ereditaria ancestrale’, attinente all’inconscio collettivo, e quindi comune a tutti gli uomini, che può innescare il passaggio all’atto di pulsioni aggressive e distruttive contro le donne in generale e nello specifico nei rapporti famigliari e affettivi. L’archetipo quindi, in termini junghiani è una sorta di istinto psichicizzato, e ne troviamo descrizione fantastica e simbolica nelle narrazioni mitiche di ogni cultura e apparizione nei sogni e in molti comportamenti sociali condivisi, in senso positivo e negativo.
Lo studioso junghiano Luigi Zoja nel suo libro Centauri. Alle radici della violenza maschile (2016). esamina il mito greco dei centauri, esseri metà uomini e metà cavalli, noti come orde primordiali volte al massacro e allo stupro collettivo. Nel branco il maschile si sente libero di dare sfogo al suo istinto arcaico di scatenarsi nel centaurismo, che si caratterizza anche nella barbarie dello stupro collettivo, commesso al riparo di condizioni che avvantaggiano il senso di impunità, come nelle guerre e nelle bande vandaliche, durante disordini sociali o in occasioni che organizzate per facilitarlo.
La cultura greca antica aveva stigmatizzato l’istinto stupratore e distruttivo del maschile attraverso il mito dei centauri: Questa antica sapienza mitica consentiva di simboleggiare e portare alla coscienza questo istinto deviante, nella prospettiva di dominarlo e isolarlo, attraverso una educazione civilizzante del maschile. Nel mondo animale per quanto i maschi combattono per assicurarsi il potere sulle femmine, non sussistono attività di stupro collettivo contro di esse. La figura del centauro, nella parte superiore umana, e in quella inferiore animale, esprime la deviazione dell’istinto sotto una spinta bestiale, diventando quindi più distruttivo e mortifero di quanto possano essere gli animali. L’intelligenza umana viene quindi pervertita e organizzata a fini aggressivi bestiali contro le donne. Zoja evidenzia come dall’analisi di stupratori che hanno agito in modo collettivo, nella maggior parte dei casi non emergono evidenze di gravi disturbi di personalità o disfunzioni mentali che possano spiegare la coazione a compiere atti aberranti contro le donne. Ma lo stupro collettivo rappresentato nel centaurismo, esso, a mio avviso, non dovrebbe essere interporetato solo in senso letterale, cioè come fenomeno criminale agito da un gruppo di maschi nella realtà. Il mito ci indica piuttosto un archetipo dell’inconscio collettivo che può attivarsi nelle fantasie e negli atti del singolo individuo. Inoltre si lo stupro rappresenta una estremizzazione della violenza contro la donna di ogni tipo, dal momento che seppure enfatizza l’atto sessuale forzato, va a indicare simbolicamente l’istinto alla sottomissione della donna in termini non solo sessuali.
In senso junghiano quindi, i maschi caduti criminosamente, ma anche solo maschilisticamente nel centaurismo, sarebbero posseduti dall’archetipo distruttivo della bestialità maschile contro le donne – dando luogo quindi ad atteggiamenti di dominanza, fino alla possibilità in determinati individui e uin determinate circostanze, alla possibilità di scatenamento di atti devianti e criminosi più eferrati.
Zoja nella sua analisi del manifestarsi del centaurismo nel corso della storia – guerre, colonizzazione, bande predatorie – e nei fatti di cronaca, evidenzia quindi una radice archetipica della violenza maschile contro le donne. Questa radice sarebbe però silente in ogni uomo, perciò ogni uomo deve avere una formazione e una maturazione per fare in modo che non sviluppi forme di maschilismo deleterio e persino criminale. In tal senso si deve parlare in opposizione al maschilismo, di mascolinismo, cioè di una cultura della sfera maschile evoluta e quindi capacedi debellare ogni istintualità violenta contro le donne e di preservare la sua specificità di genere come dono di Sé, nella responsabilità e nella creatività (vedi in tal senso la ‘psicologia al maschile’ proposta da Claudio Risé e più ampiamente il dibatitto sul mascolinismo e i diversi orientamenti psicologci e culturali per l’evoluzione della ‘mascolinità’).
CHIRONE IL CENTAURO FERITO E GUARITORE
Va osservato che Zoja non si sofferma sul mito di guarigione compensatorio del centaurismo, espresso dalla figura del saggio Chirone, anch’egli centauro, ma di tutt’altra natura, ben noto tra gli olimpici e gli eroi greci per la sua saggezza e per le sue doti di guaritore. Dante pone i centauri a guardia del Flegetonte, il fiume di sangue bollente nel qyale sono immersi i violenti (InfernoCanto XII) e ruconosce a Chirone la sua antica saggezza. Perciò solo con Chirone Dante e Virgilio dialogano e si accordano al fine di proseguire il viaggio di conoscenza nell’Inferno.
Chirine infatti sapeva come governare la sua forza istintuale raffigurata dalla sua possenza equina (il cavallo era considerata come la principale dotazione bellica di quei tempi), fondendola con la sensibilità, l’intelligenza e la sapienza. Il nome Chirone, derivante dal greco kheirós ‘mano’. Quindi si intende la capacità di servirsi delle mani, ovvero della componente fisica più performativa dell’umano, per compiere atti demiurgici e di guarigione (da ciò derivano i termini: chirurgo, chiropratico o chiromante)
Chirone venne concepito dal ratto della ninfa Nefele ad opera di Crono-Saturno. La ninfa tentò di sfuggire allo stupro trasformandosi in una cavalla che fugge, ma nulla valse la sua fuga. Dallo stupro nacque Chirone, che già da neonato appariva come una creatura deforme metà umana e metà cavallo. La madre inorridita lo rifiutò e lo abbandonò. Zeus vide il neonato e impietositosi lo portò sull’Olimpo, affidandolo alle cure di sua sorella Artemide – la dea della natura selvatica e suo fratello Apollo dio del sapere. In effetti queste figure olimpiche erano entrambe state concepite da Saturno e Rea, così come lo stesso Zeus, perciò Chirone era anch’esso un cronide, in quanto fratello illegittimo degli olimpici nati da Crono.
Zeus volle affidare a Chirone il compito di istruire gli eroi, le divinità minori e i mortali alla sapienza, intesa come capacitò di armonizzare la natura istintuale e lo spirito celeste. Zeus inoltre gli fece il dono dell’immortalità, nonostante la sua vita che, per quanto mitica, doveva restare terrena. Questa sapienza era essenziale per la guarigione di ogni malattia e ferita, secondo la medicina antica. In un certo senso Chirone fu il mitico maestro psicosomatologo della sapienza e della medicina della Grecia arcaica e antica. Tuttavia era pur sempre un centauro e quindi viveva insieme ad altri centauri i quali non avevano alcuna capacità di dominare il cavallo istintuale e semmai lo orientavano attraverso una intelligenza spietata e distruttrice.
Chirone quindi si adoperava per curare i centauri dalla loro follia maschile, dovuta alla loro incapacità di liberarsi dalla dipendenza delle forze animali di Madre natura, impiegate per distruggere invece che per generare.
Avvenne che Eracle – allievo di Chirone – decise di passare alle maniere forti contro i centauri, i quali si rifuggiarono nella caverna dove viveva Chirone. Ma Eracle lanciando saette avvelenate con la mortale bile di Idra ne uccisi molti. Purtroppo una delle frecce avvelenate colpì anche Chirone ad una gamba. Nonostante il tentativo di autocurarsi con erbe, per Chirone fu impossibile di lenire l’atroce dolore. Tuttavia, essendo immortale il suo supplizio era destinato a durare per l’eternità. Allora supplicò Zeus di restituirgli l’immortalità, ma il padre degli dei gli rispose che ciò non era possibile, neppure per i suoi poteri. L’unica possibilità per liberarsi da quella crudele immortalità sarebbe stata quella di farne dono a qualcuno. A quel punto entrò in scena il Titano Prometeo che, ricordiamolo, stava incatenato su un monte del Caucaso a sopportare l’eterno supplizio di un Aquila che gli divorava il fegato di giorno, dopo che gli era ricresciuto di notte, e così per sempre, ancorché il Titano non fosse immortale. Prometeo allora offrì a Chirone la possibilità di cedergli l’immortalità, dal momento che la sua sofferenza sarebbe continuata per sempre. Ancora una volta Zeus si mostrò compassionevole e decisa di liberare i due mitici personaggi dalla sofferenza, ma per Chirone questo significò poter morire in pace. Zeus tuttavia lo volle in cielo accanto a sé, trasformandolo in quella che ancora oggi viene chiamata costellazione del Centauro (nel 1977 venne scoperta una cometa periodica alla quale fu dato il nome di Chiron 2060).
INPUT PER UN “PROGETTO CHIRONE”
Chirone fu maestro di eroi come Eracle, Aiace, Achille, Giasone, Teseo e Asclepio (dio della medicina) e molti altri. Pare che Zeus, ovvero il simbolismo del padre civilizzatore dell’umanità, abbia affidato a Chirone la cura dell’istintualità maschile troppo ancorata ad un’interpretazione bestiale dell’istintività naturale. Del resto egli era stato respinto e abbandonato dalla madre, ma apprese come curare questa sua traumatica ferita originaria, trasformandola in autonomia, sensibilità e saggezza. La ferita originaria maschile in ogni uomo, indotta da un originario complesso materno, per non degenerare nella rabbia violenta del centaurismo, deve poter essere medicata, educata, trasformata così come fece il centauro Chirone. Questi corrisponde anche alla figura del padre capace di disciplinare e orientare i figli maschi verso una liberazione dalle ferite complessuali e di orientarli verso l’amore e il coraggio nell’affrontare la vita e il mondo, e quindi di costruire buone relazioni erotico-affettive e nel sociale. (Si veda il grande tema dell’assenza del padre richiamto da molti studiosi di Psicologia, tra i quali Claudio Risé, Massimo Recalcati, Umberto Galimberti e lo stesso Luigi Zoja).
Cosa ci indica dunue l’antico mito di Chirone secondo la sua interpretazione psicoarchetipica? Ci insegna che la violenza maschile contro le donne, non va solo contrasta con la forza legalizzata dell’autorità, quindi con la coercizione e la pena detentiva. Questa infatti era la logica di Eracle, giusta, ma nello stesso tempo incapace di cooperare con Chirone, fino al punto di ferirlo mortalmente. Chirone quindi potrebbe oggi essere il mito ispirativo di un progetto di prevenzione, cura e formazione della violenta istintualità archetipica del maschile.
Mi piacerebbe quindi incontrare specialisti di diverse discipline per pensare e realizzare un PROGETTO CHIRONE inteso anche come unità di ascolto e accoglienza da affiancare ai Centri antiviolenza per la donna. Queste unità avrebbero il compito di intervenire specificamente sui potenziali offensori maschi. Come? Con tutti gli strumenti mediatici disponibili, avvisando tutti gli uomini, attraverso una campagna mediatica, anche con i social, della possibilità per ogni uomo di cadere nella follia dei centauri e facendo sapere che sul territorio vi sono unità di ascolto e supporto per evitare lo scivolamento o l’inclinazione verso questa catastrofica eventualità. Uno sportello telefonico e una piattaforma digitale, potrebbero servire a instaurare un dialogo di contenimento e orientamento per tutti gli uomini che si sentono pervasi da sentimenti di rabbia violenta contro una compagna. Occorrerebbe formare team di psicologi ed esperti in termini di prevenzione, dissuasione e cura di istinti, pensieri e atteggiamenti violenti maschili – prima che diano luogo a passaggio ad atti cruenti e a cronicità tormentati o volti a farli cessare il prima possibile. In buona sostanza e in estrema sintesi, il messaggio da lanciare potrebbe essere questo: “SEI ARRABBIATO CONTRO LA TUA COMPAGNA, CONSIDERI CHE TI DEVI VENDICARE DI UN TORTO SUBITO? SE TI SENTI FERITO A CAUSA DI UNA DONNA CONTATTACI, ABBIAMO COSE IMPORTANTI DA DIRTI E PROPORTI PER EVITARE TRAGEDIE IMMANI E FATALI, E PER RIDARTI LA FORZA E IL CORAGGIO DI ESSERE UOMO!”
Tutto ciò può sembrare utopistico, se non assurdo, dato che ad avere bisogno di supporto sono essenzialmente le donne. Ma se non si interviene con un progetto compiuto, sufficientemente finanziato e quindi realizzabile, rivolto anche ai potenziali offensori, si perde una specifica possibilità di prevenzione e cura, che va comunque a tradursi in ulteriore salvaguardia delle donne. In termini psicomitici possiamo dire che se si continua a pensare solo in ragione dell’erculea forza di contrasto e inasprimento della legge e delle pene, per quanto ciò sia pre giusto, si rischia di uccidere Chirone, mentre la sua saggia operosità potrebbe essere indispensabile per compiere un importante passo avanti contro la maledizione archetipica maschile che affligge le donne.
Pier Pietro Brunelli – Psicologo- Psicoterapeuta Dottore in DAMS e Specialista della Comunicazione sociale