Nella fiaba di Amore e Psiche di Apuleio si narra di come, attraverso le pene d’amore, l’essere umano sia costretto – sotto la minaccia di morire – ad elaborare l’esperienza erotica come un ponte tra la sua vita istintuale e la sua vita spirituale. L’elaborazione della sofferenza amorosa dell’anima comporta lo sviluppo di una visione trascendente e spirituale della vita. Morendo di dolore d’amore si è costretti a lottare prer sentire interiormente l’anima che vuole rinascere, altrimenti si rischia di morire davvero. Perciò si è spinti a scoprire che non vi è altra possibilità per vivere se non quella di aprirsi alle fonti spirituali di un amore che sembra sgorgare da una sorgente sovraumana, divina, cosmica, trascendente. Quest’apertura è nella ‘valle dell’anima’, nel senso indicato da Hillman che parla di patologizzazione psichica ed esistenziale anche come sofferenza o condotta ‘anormale’, che può essere necessaria per ‘fare anima’. Si è quindi attratti da una relazione tormentosa, e da persone tormentanti, al fine – inconscio – di conoscere il proprio mondo interiore e non essere ciechi rispetto ad esso. Ma ciò comporta il rischio di perdersi, di essere dissanguati in una relazione vampirizzante.
In seguito ad una patologizzazione da trauma amoroso è fondamentale medicarsi e nutrirsi attraverso la ricerca di una fonte spirituale d’amore. Solo in tal modo sarà possibile tornare ad irrigare l’anima inaridita e devastata dalla sofferenza amorosa. E’ vero quanto dice Hilman in ‘Picchi e valli’[1] che bisogna patologizzare per ritrovare la ‘valle del fare anima’, ma è pur vero che viene il momento in cui è necessario cercare di salire sui ‘picchi spirituali’, laddove la sostanza dell’anima si fonde e si sublima con quella divina. Ciò non vuol dire affatto che bisogna seguire il sentiero tracciato da un credo o un cammino spirituale specifico o obbligatoriamente ortodosso, ma che bisogna ‘aprire gli occhi’ verso la direzione di un ‘amore celeste’ e quindi di una fonte spirituale della vita amorosa che non sia solo derivata dall’’amore terrestre’. In tal senso nella terapia del trauma amoroso il detto ‘chiodo scaccia chiodo’ non vale, almeno fino a quando non si sia riacquistata la vista di un amore più elevato, che si scorge dai picchi della vita spirituale. Ripetiamo che la parola spirituale non vuol dire necessariamente ‘religioso’, vuol dire essere mossi da una visione che va al di là del proprio ego, della propria immanenza, della materialità, delle pulsioni e degli istinti. Tutto ciò va elevato in una visione di sé e del mondo ispirata in senso trascendente, cioè mossa da uno ‘spirito’, che può essere artistico, politico, filosofico, scientifico ed eventualmente anche religioso, ma che sia essenzialmente uno ‘Spirito d’amore’. Si tratta di ricercare lo ‘Spirito d’amore’, inteso come una più matura capacità e sensibilità relazionale affettiva ed erotica interna a se stessi. Quindi, prima di trovare un nuovo amato con il quale consolarsi di pene e traumi amorosi, è fondamentale ricercare lo ‘Spirito d’amore’, nelle sue molteplici forme simboliche e concrete, affinché si possa veramente guarire e rinascere ad una nuova vita interiore e relazionale. Tuttavia bisogna ben comprendere la differenza tra l’aprirsi alla visione dell’amore celeste che dà la facoltà di vedere il mondo interiore rispetto al cieco affidarsi a visioni religiose, spirituali, magiche considerabili come disperata soluzione salvifica di redenzione e rinascita. Una sentita religiosità e un credo possono aiutare moltissimo, ma purché vi sia un’elaborazione della propria Ombra, del ptroprio vissuto e dell’inconscio, affinché lo Spirito senta l’ Anma e viceversa. Non si tratta di abbracciare una fede visionaria che mortifica l’Eros per sacrificarlo ad un divino superiore, ma di credere nella forza generativa e bellissima dell’amore in ogni sua manifestazione – anche nella sua caduta agli inferi, nel suo lato oscuro. Così l’amore con le sue gioie e i suoi dolori, nelle sue passioni e patologie è la forza che ‘fa anima’.
La sofferenza amorosa è così dilaniante che fa esperire l’inferno, il purgatorio o il paradiso, o altri mondi dello spirito, delle religioni e del mito come stati del proprio mondo interiore, psichicamente tangibili e narrabili solo attraverso visioni e immagini poetiche, figurative, fantastiche, inverosimili eppure appartenenti ad una ‘realtà psichica’. Le pene d’amore acuiscono la sensibilità interiore, cosìcché simboli, miti, immagini e narrazioni spirituali penetrano e fecondano l’anima.
Il mistero dell’amore per essere esperito in profondità richiede di essere vissuto sia nella gioia e sia nel dolore; la sua presenza si percepisce anche in funzione della sua assenza. Ben sanno gli innamorati di come l’amore si percepisce in un senso di mancanza. Così, nel dichiarare amore si dice ‘mi manchi’, ‘I miss you’, e quindi io soffro senza te, morirei senza te. Così nella gioia amorosa c’è il trepidare di una sofferenza in potenza, che per essere evitata non ha altra soluzione che non sia quella di essere evocata, come un ‘morir d’amore’, o ‘morire tra le tue braccia’, affinché l’eternità amorosa possa essere sentita ‘oltre la morte’. L’amore quindi, nella sua contraddizione tra infinitezza e fine, tra illimite e limite, ci impone un esercizio di trascendenza che attraverso lo psichismo connette materia e spirito.
L’amore, con le sue pene, ci costringe ad interrogarci sull’anima, e quindi su una dimensione spirituale dell’esistenza, che trascende dal tempo e dallo spazio, che viene percepita come infinita e immortale. Questo dilemma nel mito e nelle arti è stato espresso come sfida e alchimia dell’anima tra Amor e sacro e Amor profano.
httpv://www.youtube.com/watch?v=4JXQQrA50lk
D’altra parte tutte le forme religiose originarie considerano l’amore erotico come una forza divina che connette la natura animale dell’essere umano alla sua natura spirituale. I tabù e i divieti sessuali nascono sia per esercitare forme di controllo sociale e sia per contenere la scissione nell’anima tra animalità e spiritualità. In tal senso vanno letti certi divieti e certe rigidità anche nelle religioni monoteiste. Ma alla base di tutte le religioni la sessualità viene considerata come una manifestazione dello spirito che porta la vita, ed è quindi sacra.
Il trauma amoroso è un trauma che violenta e uccide lo Spirito dell’amore anche violando e umiliando l’intima sacralità della sfera sessuale. La vita sessuale nella relazione amorosa è un tramite sensibile di fusione e unione con la totalità. La sessualità congiunge per via sensibile l’anima all’universo, alla totalità, allo spirito. Quando questa sessualità viene umiliata, negata, ferita non si perde semplicemente il piacere, il godimento dell’atto fisico, ma la possibilità di congiungersi all’eternità e allo Spirito. Ciò che si perde nel distacco erotico dall’amante è la possibilità di percepire la vita oltre la morte, in un trasporto poetico passionale che rende esperibile in senso psichico “l’amore che unisce il sole e l’altre stelle” e placa ‘l’ansia d’infinito’. Perciò la persona traumatizzata in amore si sente molto ferita quando qualcuno le dice che il suo trauma consiste in fondo nella banale perdita dell’oggetto sessuale’. In verità essa si tormenta non per aver perso il piacere sessuale, ma l’immortalità dell’anima. Si tra tratta di una tragedia che ha la sua radice archetipica leggibile nel mito Afrodite, la dea dell’amore.
Afrodite, che vuol dire, ‘colei che nasce dalle spume del mare’, è secondo la leggenda principale (le Teogonie di Esiodo) la più antica di tutte le dee, infatti nasce dagli dei più primari: Urano (Cielo) e Gea (Terra). Questi erano abbracciati per un tempo eterno in una copula continua, fino a quando Saturno loro figlio – il dio del tempo – non li separò tagliando con un falcetto il fallo al padre Urano. Così cessò l’eternità – cioè l’esistenza senza tempo – ed inizio il tempo. Il fallo di Urano cadde nelle acque del mare, e dalle spume che si sollevarono nacque Afrodite, la dea dell’ Amore che per gli umani rappresenta‘quel che resta dell’eternità’. L’amore afroditico ci fa sentire eterni nell’anima e riecheggia nei ‘per sempre e nei mai’ e nel poetico ‘senso di infinito’ degli innamorati. Se non si è elaborata una visione immaginale del mondo interiore e quindi un senso spirituale dell’eternità, si può facilmente cadere in dinamiche amorose vampirizzanti, come vampirizzato o come vampiro amoroso. Un visione ingenua dell’eternità insita nell’amore richiede rassicurazione che esso sia possibile per sempre, che non finisca mai, che leghi per tutta la vita ed anche oltre. Ma l’amore è per sempre solo in ogni suo attimo, esso è vissuto come sentimento di eternità e immortalità, non può mai essere considerato in modo provvisorio o transitorio, altrimenti non è amore. Ciò non toglie che l’amore non possa finire, ma non è possibile viverlo pensandolo come se potesse finire. L’amore è un’eternità che si conferma nel suo divenire, non sarebbe possibile altrimenti, la fiamma perenne che illumina e unisce può alimentarsi solo attraverso un sentimento spirituale di eternità. Una persona che rinuncia per comodità, superficialità, distrazione alla ricerca di tale sentimento spirituale ‘extra-temporale’ può diventare facilmente un vampiro amoroso o un vampirizzato.
Quando vi è una capacità di sentire, toccare, vedere nell’amore una forza trascendente, spirituale e infinita, allora gli amanti si amano davvero e possono superare i loro conflitti in un processo di crescita e reciprocità ‘genitale’, cioè generativa di vita e di vitalità. Tra i due amanti il legame è tanto più sano ed autentico quanto più è dato dal riconoscimento dello ‘Spirito dell’amore’ che genera, e quindi che unisce e anche separa, a seconda della sua volontà generativa. Lo Spirito dell’amore che sta tra gli amanti capaci di vederlo e sentirlo – in quanto sono sufficientemente maturi per vederlo e sentirlo dentro se stessi – consente di sviluppare una particolare forma di co-dipendenza basata sulla fiducia reciproca, garantita da una percezione spirituale, e per la quale è possibile essere uniti in una reciproca indipendenza. In ciò sta un fondamentale mistero del’amore che preserva ad un tempo vincolo e libertà, che fa sentire legati, eppure liberi. Quando lo Spirito dell’amore non si vede, perché non è stato cercato, coltivato e cultualizzato, ritualizzato e simboleggiato attraverso una visione immaginale del mondo interiore il più possibile liberata da complessi e rimozioni infantili, tanto più le pene e i traumi amorosi sono tremendamente necessari e possibili.
Ogni crisi amorosa è una sfida per maturare e rigenerare la presenza dello Spirito dell’amore, ma quando questa rigenerazione non avviene si mette in moto un processo degenerativo e regressivo dal quale riemergono fantasmi e condizionamenti del nucleo infantile complessuale. In questa fase il rischio è che lo Spirito dell’amore, ovvero l’energia di legame generativa tra gli amanti, lascia il posto ad un’energia di legame degenerativa , e nella metafora da noi adottata ad una dinamica amorosa traumatica e ‘appassionatamente vampirizzante’, il cui destino non è più quello piacevole e vitale come vorrebbe l’amore, ma tragicamente doloroso e mortale, come vuole l’odio.
Quando si perde l’amore si perde l’anima e allora nasce un conflitto tra l’abbandonarsi e rinunciare ad essa tra depressione, ansia, disperazione e follia e una tensione a ritrovarla e a guarire. Ma se l’anima ha subito anche un processo di vampirizzazione a causa di una relazione patologica segnata da dinamiche narcisiste e borderline il dolore è assai più acuto e pericoloso e ritrovare e guarire l’anima è una missione possibile, ma alquanto più ardua e tormentosa. Occorre un grande sacrificio, occorre immolare la propria sofferenza affinché ritorni lo Spirito dell’amore: una luce azzurra e trascendente che è la medicina essenziale affinché si rigeneri il nobile ‘sangue blu’che può nutrire e curare l’anima vampirizzata.
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[1] James Hillman, “Picchi e valli. La distinzione fra anima e spirito come fondamento delle differenze fra psicoterapie e disciplina spirituale”, ora in J. Hillman, Saggi sul Puer, Milano, Adelphi, 1988.
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Invito a guardare i video della mia conferenza seminario AMORI PATOLOGICI https://www.albedoimagination.com/2016/04/amori-patologici-conferenza-di-pier-pietro-brunelli/
Complimenti, ho trovato questo articolo davvero interessante.
Grazie
Bellissimo…..
Sì la natura dell’amore è proprio quel senso di “mancarsi” continuamente, di cui parli, Pier Pietro….. Pensavo fosse un po’ infantile…..
Tali questioni sono profondissime. Sull’amore come mancanza reverbera il mito di Eros così coime lo rielabora Platone. Perciò qui di seguito un riassunto della sua complessa teoiria dell’amore. Tratto da https://www.parodos.it/filosofia_grecaplatoneeros.htm
L’eros
” L’apprendere stabilisce tra l’uomo e l’essere in sé e tra gli uomini associati nella comune ricerca un rapporto che non è puramente intellettuale, perché impegna la totalità dell’uomo e quindi anche la volontà. Questo rapporto è definito da Platone come amore (eros). Alla teoria dell’amore sono dedicati due dei dialoghi più artisticamente perfetti, il Convito ed il Fedro. Di questi, il secondo è certamente posteriore al primo. Il Convito considera prevalentemente l’oggetto dell’amore, cioè la bellezza, e mira a determinare di essa i gradi gerarchici. Il Fedro considera invece prevalentemente l’amore nella sua soggettività, come aspirazione verso la bellezza ed elevazione progressiva dell’anima al mondo dell’essere, al quale la bellezza appartiene.. Essa fa da mediatrice fra l’uomo caduto e il mondo delle idee; e l’appello di essa l’uomo risponde con l’amore. E’ vero che l’amore può anche rimanere attaccato alla bellezza corporea e pretendere di godere solo di questa; ma quando l’amore venga sentito e realizzato nella sua vera natura, allora si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere. In questo caso non è più soltanto desiderio, impulso, delirio; i suoi caratteri passionali non vengono meno, ma sono subordinati e fusi nella ricerca rigorosa e lucida dell’essere in sé, dell’idea. L’eros diventa allora procedimento razionale, dialettica.
I discorsi che gli interlocutori del Convito pronunciano l’un dopo l’altro in lode di eros esprimono i caratteri subordinati e accessori dell’amore, caratteri che la dottrina esposta da Socrate unifica e giustifica. Pausania distingue dall’eros volgare, che si rivolge ai corpi, l’eros celeste, che si rivolge alle anime. Il medico Erissimaco vede nell’amore una forza cosmica che determina le proporzioni e l’armonia di tutti i fenomeni così nell’uomo come nella natura. Aristofane, con il mito degli esseri primitivi composti d’uomo e donna (androgini), divisi dagli dèi per punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per unirlesi e ricostituire l’essere primitivo, esprime uno dei caratteri fondamentali che l’amore rivela nell’uomo: l’insufficienza. Da questo carattere, appunto, prende le mosse Socrate: l’amore desidera qualche cosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti lo dice figlio di Povertà (Penía) e di Acquisto (Poros); come tale esso non è un dio, ma un demone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza, ma aspira a possederla ed è quindi filosofo, mentre gli dèi sono sapienti. L’amore è dunque desiderio di
bellezza; e la bellezza si desidera perché è il bene che rende felice. L’uomo che è mortale tende a generare nella bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza è il fine (telos), l’oggetto dell’amore. Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l’uomo può sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino. In primo luogo, è la bellezza di un bel corpo quella che attrae ed avvince l’uomo. Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare tutta la bellezza corporea. Ma al disopra di essa c’è la bellezza dell’anima; al disopra ancora, la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze e infine, al disopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa e fonte di ogni altra bellezza (210 a-211 a).
Come l’anima umana può percorrere i gradi di questa gerarchia, fino a giungere alla bellezza suprema? È questo il problema del Fedro ; il quale parte perciò dalla considerazione dell’anima e della sua natura. L’anima è immortale in quanto ingenerata; infatti si muove da sé, quindi ha in se stessa il principio della sua vita. La natura di essa si può esprimere «per via umana e più breve» con un mito. E simile ad una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: l’uno dei cavalli è eccellente, l’altro è pessimo, sicché l’opera dell’auriga è difficile e penosa. L’auriga cerca di indirizzare nel cielo i cavalli al seguito degli dèi, verso la regione sopraceleste (iperuranio) che è la sede dell’essere. In questa regione sta la «vera sostanza» (ousìa), priva di colore e di forma, impalpabile, che può essere contemplata solo da quella guida dell’anima che è la ragione, la sostanza che è l’oggetto della vera scienza (Fedr., 247 c). Questa sostanza è la totalità delle idee (giustizia in sé, temperanza in sé, ecc). Ma essa può essere contemplata solo per poco dall’anima che è tirata in basso dal cavallo balzano. Ogni anima perciò contempla la sostanza dell’essere più o meno; e quando per oblio o per colpa s’appesantisce, perde le ali e s’incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quale essa lo rende. L’anima che ha visto di più va nel corpo di un uomo che si consacra al culto della sapienza o dell’amore; quelle che hanno visto di meno s’incarnano in uomini che sono via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza.
Ora nell’anima che è caduta e si è incarnata, il ricordo delle sostanze ideali è risvegliato proprio dalla bellezza. L’uomo difatti riconosce subito, appena la vede, la bellezza per la sua luminosità. La vista, il più acuto dei sensi corporei, non vede nessuna delle altre sostanze; può vedere però la bellezza.
La dialettica è nello stesso tempo ricerca dell’essere in sé e unione amorosa delle anime nell’apprendere e nell’insegnare. E quindi psicagogia, guida dell’anima, con la mediazione della bellezza, verso il suo vero destino. Ed è anche la vera arte della persuasione, la vera retorica; che non è, come sostengono i Sofisti, una tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto e la natura dell’anima che si vuole persuadere; ma scienza dell’essere in sé e, nello stesso tempo, scienza dell’anima. Come tale distingue le specie dell’anima e per ognuna trova la via appropriata per persuaderla e condurla all’essere.
Questo concetto della dialettica, che è il punto culminante del Fedro e lo sbocco della teoria platonica dell’amore, doveva essere il centro della speculazione platonica negli ultimi dialoghi”.