QUANDO GLI EFFETTI COLLATERALI DI ‘CERTE’ DIAGNOSI PSICHIATRICHE SI RIVELANO PERNICIOSI E MICIDIALI – IL CASO VAN GOGH
Pier Pietro Brunelli

Van Gogh ai suoi tempi subì diverse forme di persecuzione psichiatriche, a fin di bene, purtroppo. Come quando fu rinchiuso in manicomio per un po’, avendolo scoperto nella notte in una campagna, con un cappello a larghe tese in testa, sulle quali aveva posto un giro di candele accese, come su una torta. I trattamenti, a farla breve, non erano leggeri, nel senso che la logica del ‘castigamatti’ era alquanto in voga. Non tutti sanno perché Vincent se andasse in giro di notte con quelle luminarie sulla testa, che indubbiamente dovevano farlo apparire spettrale.
Il fatto è che voleva dipingere di notte e in quel tempo non c’erano faretti. Era un tipo strano certo, e aveva i suoi problemi e le sue debolezze come tanti, ma possiamo dire che se non avesse avuto pure il vizio di fare l’artista geniale, quasi sicuramente sarebbe passato inosservato come tanti altri.
Purtroppo la società moderna e civile, nonostante le sue stranezze spesso orribili, i tipi strani o con le loro difficoltà non li sopporta, spesso li colpevolizza nell’emarginarli finisce con il psichiatrizzarli malamente – avvalendosi di etichette psichiatriche ampiamente diffuse in rete (usandole anche per uso denigratorio, verdetti sommari e autodiagnosi certamente improprie). Poi vi sono compartamenti che un tempo erano ritenuti folli o assurdi, che diventano eccentricità persino lodevoli, laddove certe stranezze e stramberie vengano riproposte dai media come funzionali e fruttuose per essere al passo con i tempi, fare spettacolo, atteggiarsi, condizionando la scelta di trattamenti e prodotti, oppure per favorire un qualche marketing politico del momento… specialmente in ambito psicosessuale). Così anche le nosografie psichiatriche per quanto siano frutto di enormi sforzi scientifici, anno dopo anno, giungono a classificare cosa è deviante e cosa non lo è, quanto, come e perché, contraddicendosi con una certa disinvolta mancanza di autocritica ufficiale, sostanzialmente ostinandosi a perfezionare una notevole sagacia classificatoria, e tralasciando di mettere veramente in discussione metodo, fondamenti e senso operativo…
E questo succedeva già ai tempi di Van Gogh, dato che la psichiatria per quanto ai primordi, si considerava forte dei suoi modelli e metodi che riteneva scientifici e in buona fede fondata, quindi sulla corretta via della terapia dei disturbi mentali e delle conseguenti ‘stranezze sintomatiche’.
C’è da chiedersi se invece proprio in quegli esordi ottocenteschi presero con tale determinazione la via sbagliata che ancora oggi non si riesca ad abbandonarla, sulla base delle importanti scoperte sulle biochimiche cerebrali, che però pretenderebbero di fare i conti con lo psichismo come fosse un campo trattabile essenzialmente con gli strumenti logici e metodologici della medicina scientifica.

Friedrich Nietzsche
Il dibattito in corso su questi temi, per fortuna è di enorme portata e qui certo possiamo solo evocarlo, dedicandolo con uno sguardo d’amore a Van Gogh (oppure ad altri del suo valore artistico e culturale, ricordando ad es. che nella cartella clinica psichiatrica formulata per un ricovero di Nietzsche si legge che “il paziente sostiene di essere un grande filosofo”).
In effetti va osservato che in gran parte le vecchie camicie di forza in tela bianca sono state spesso sostituite con quelle ancora più robuste, ma invisibili in tela chimica – e davvero non sempre sarebbe assolutamente necessario, e almeno si dovrebbe poi essere aiutati a togliersele… infatti come si fa a togliersi da soli una camicia di forza di ogni tipo? E’ impossibile! Perciò chi l’ha messa deve aiutare a toglierla. Sono tanti gli psichiatri che con scienza e coscienza ci provano a ‘ deprescrivere’, ma le strutture della salute mentale di certo non lo facilitano. D’altra parte lo smantellamento basagliano delle strutture manicomiali, pur dando luogo a un’a nuova era di liberazione e umanizzazione. non è stata compensata dalla società e dallo Stato con strutture ed eventi adeguati ad accogliere coloro che avrebbero avuto bisogno di un certo adeguato sostegno, come avrebbe avuto bisogno Van Gogh, e tutti ne avrebbero diritto, anche se non si è artisti geniali.

Alda Merini
Occorre inoltre che i modi di pensare alla sofferenza e ai disturbi psichici, cambino radicalmente, non solo nella psichiatra, ma anche nella società. Il malessere psicologico manifesto non corrisponde sempre a incapacità di amare e di creare, ce lo ha insegnato con il suo cuore poetico Alda Merini (ma queste cose per fortuna, molte persone di ogni ceto e cultura già le sanno, ma molte altre ancora no, perché ancora ci sarebbe tanto da fare nell’ educazione e nella cultura). E poi molto ci sarebbe sempre da dire su una certa follia che cova in tanti cosiddetti normali e della quale nessuno è esente (come Jung ha evidenziato nell’analisi archetipica dell’Ombra).
Spesso per trovare sostegno adeguato e accompagnare, o limitare o proprio uscire dalle cure psicofarmacologiche – che comunque non vanno mai demonizzate, in quanto possono aiutare tanto – occorre anche un budget di spesa, che non tutti hanno, perché una deprescrizione fatta bene deve avvalersi non solo di competenza psichiatrica, ma anche di psicoterapia, che la mutua raramente offre…

Ma il problema sono anche i modelli diagnostici psichiatrici interpretati con rigidità, che poi ritroviamo nelle etichette nel bugiardino degli psicofarmaci o nella nosografia di cartelle cliniche che vanno a catalogare i problemi psichici delle persono in modo che pare specialistico ciò che poi è veramente generalista. Così che nell’ affibbiare una etichetta psichiatrica a una persona, spesso si dimentica che la si pone in una ulteriore camicia di forza, non tanto chimica quanto concettuale. Si tratta di una concezione e di uno uso diagnostico psichiatico che psichiatrizza, come caso clinico curabile quasi solo e soltanto con gli psicofarmaci… Intanto ci si sente bollati, agli occhi di se stessi, degli altri e della collettività, dal momento che si ritiene di essere stati certificati con certezze scientifiche e perciò indiscutibili – almeno fino al ricevimento di un altro certificato…. ciò diventa iatrotrogeno (‘medicina che ammala’, in tal caso anche senza terapia errata, ma per via della sola diagnosi).
Nei confronti di Van Gogh possiamo osservare un certo accanimento iatrogeno di ordine psichiatrico, (allora come ora) quando ci imbattiamo nelle gare sulle etichette psichiatriche che si vogliono ancora certificare al povero Van Gogh… peraltro effettuate non sul paziente, ma sulla base di testimonianze derivate da un ambiente socioculturale e medicale che per certi aspetti era assai più folle di Van Gogh… per quanto poi lo si voglia ergere come mito di ‘genio e follia’…
Si legga ad esempio il seguente quadro diagnostico, pubblicato da autorevoli diagnosti:
“Disturbo bipolare dell’umore associato a disturbo borderline della personalità, aggravati dall’abuso abituale di alcool e da lunghi periodi di malnutrizione. È questa la diagnosi sulle condizioni di Vincent Van Gogh, emersa nel corso di uno studio recentemente pubblicato dall’International Journal of Bipolar Disorders, firmato da Willem A. Nolen, Erwin van Meekeren, Piet Voskuil e Willem van Tilburg”.
Queste diagnosi si correlano poi all’impiego, si presume sempre ben valutato, di cure essenzialmente psicofarmacologiche. Tali cure dovrebbero però essere considerati tanto più efficaci e ponderabili quanto più vengono integrate con altri percorsi di cura, tra queste la psicoterapia, la terapia occupazionale, le artiterapie ecc. Però dobbiamo osservare che fino a quando la psicofarmacologia non è stata in grado di intervenire in forma massiccia e per mezzo di molecole sempre più di ‘nuova generazione, avevamo più possibilità di manifestare a diversi livelli e modalità certe condizioni di genio e follia, o più umilmente di non appiattire certe capacità performative di certi pazienti, in termini creativi e quindi partecipativi (insomma occorre interrogarsi anche su quante intuizioni e pratiche creative la psicofarmacologia, proprio quella più evoluta, rischia di comprimere e compromettere, ancorché curando…). Il rischio poi è quello di diffondere, tra internet e svariati ambiti mediatici, una certa “psichiatria sommaria”, che confonde con ‘paraocchi pseudodiagnostici’ gli stessi utenti (nonché amici e parenti) e purtroppo a volte anche terapeuti, operatori della salute mentale, educatori, comunicatori ecc.
Ma che interesse si avrebbe poi ad diffondere, anche con riviste scientifiche, certe etichette diagnostiche postume ai grandi delle arti, della cultura e della storia? E in nome di quale tanto decantata ‘evidence based’, quando questi studi diagnostici di gran fama valutano ‘paziente’ mai visitati, né visti? Se si tratta di personalità artistiche e della cultura per le quali vale la pena inchinarsi dinnanzi alle opere ci hano lasciato, perché etichettarli secondo ‘nosografie classiche e normali’? Forse è un modo per convalidare una psichiatria che non riesce ad andare avanti se non con l’accanimento diagnostico nosografico e psicofarmacologia correlata ad libitum’? Forse la diagnosi da fare sarebbe quella di comprendere quali processi proiettivi, e pregiudizi paranoidei possano arrivare ad impiegare scienza e coscienza per costruire e diagnosticare secondo mentalità e metodi che servono più a incasellare che a curare, più a compartimentare/rinchiudere che a comprendere/liberare…
Suvvia, non vogliamo sembrare i soliti cattivi antipsichiatri, di certo tantissima psichiatria fa il suo meglio… semmai è la cultura e la struttura della psichiatria ‘troppo psifarmacologizzata’, che andrebbe rivisitata con più coraggio, integrandola con maggior decisione alla psicologia e alla psicoterapia. La psichiatria infatti, come osserva Hillman, non dovrebbe essere concepita prevalentemente come una costola della Medicina (diagnosi/malattia/farmaco), bensì della Psicologia (comprensione/relazione/cura).
Ma intanto per compensare alla angusta diagnostica affibbiata a Van Gogh, consigliamo la lettura del testo di Artaud (vedi copertina): “Van Gogh il suicidato dalla società”, anche per via di diagnosi e trattamenti alquanto iatrogeni che gli avevano riservato a suo tempo e che purtroppo sembra che ancora gli potrebbero riservare.
Del resto, si dirà: “ma Artaud era matto anche lui”… 9 anni di ricoveri, durante i quali scriverà opere con le quali denuncia la brutalità dei trattamenti subiti… (52 elettroshock in tre anni) eppure continuava a produrre taccuini artistici e testi letterari. La sua cartella clinica lo descriveva come un paziente «fissato e perduto definitivamente per la letteratura». Lacan andò a fargli visita nel 1938 presso la Clinica Sainte-Anne, e scrisse di lui: «Artaud è stabilizzato, vivrà fino ad ottant’anni, ma non scriverà più una sola riga» Lacan si sbagliava, nei giorni del rilascio (1946) Artaud dava alle stampe i suoi scritti realizzati durante la sua lunga e sofferente degenza. Queste grandi storie di vita, tra sofferenza psichica e creatività, sono ben note, ma devono sempre ricordate e farci riflettere.
Evidentemente la psiche è per sua natura capace di potenze di guarigione e di creatività che la scienza ancora non conosce, e che deve considerare con umiltà, al fine di poterle meglio attivare nella mente di tutti, anche di coloro che non possono esprimere la genialità, e che tuttavia posseggono grandi sentimenti di amore e di creatività nel profondo della loro anima, per quanto sofferente.
Possiamo affermare in estrema sintesi che la ‘pazzia’ (se così la dobbiamo chiamare) ci ha dato insieme ad essa grandi artisti e pensatori, e quindi la società e la scienza si impegnino sempre di più a comprenderla e a rispettarla. con nuove sensibilità e intelligenza, altrimenti la pazzia più pericolosa è quella che appare savia, per mascherare negatività di tipo antisociale e narcisismi di potere.
P.S.
Potrà sembrare solo una sciocca provocazione, ma per fortuna certi psicofarmaci ai tempi di Artaud e Van Gogh non c’erano, altrimenti è assai probabile che nel contenimento della loro sofferenza, non avremmo avuto capolavori e geni considerati ad un tempo folli. Ma non possiamo sapere neppure quante persone con talenti e sentimenti, seppure non celebri, per via della diagnostica e della cura psicochimica, non sufficientemente integrata alla cura psichica – avrebbero avuto tarpate le ali dell’anima.
Con ciò dobbiamo comunque ringraziare il cielo che gli psicofarmaci esistono e che la ricerca psicofarmacologica vada avanti, ma occorre sempre tenere bene in mente e nel cuore che si tratta di una cura che ha contemporaneamente bisogno di ‘fare anima’ (Hillman)… anche grazie a ispirazioni di personalità come quelle di Artaud e di Van Gogh…
Pier Pietro Brunelli Psicologo-Psicoterapeuta e Specialista della Comunicazione Sociale
(Clinico e studioso della funzione psicoterapica nei percorsi di deprescrizione degli psicofarmaci, sotto controllo di specialisti della Psichiatria).