PSICO-ECONOMIA DELLO STATUS SYMBOL
La nascita delle belle maniere nella modernità
Pier Pietro Brunelli
Psicologo – Psicoterapeuta – Specialista della Comunicazione Sociale
Nelle corti dell’Italia rinascimentale non primeggiava solo la bellezza nelle arti, ma anche nei modi cortesi di stare in società. I potenti di tutta Europa si recavano in Italia per lasciarsi ispirare dalla nascente cultura delle ‘belle maniere’, che coniugava la fascinosità dell’abito, del ‘look’ (diremmo oggi) e del comportamento ‘elegante’.
Quando Massimiliano I D’Asburgo conobbe Beatrice d’Este, moglie di Ludovico Sforza (detto il Moro), restò affascinata dalla grazia di questa donna, per un motivo particolare. Massimiliano era uomo schietto, che amava la caccia, la natura, i modi semplici e virili da condottiero. Beatrice era di un’eleganza raffinatissima, ma allo stesso tempo aveva uno spirito guerriero, anche lei andava a caccia, come cultrice di Diana, e si interessava con perizia di armamenti e di politica. Era dunque possibile essere virtuosi nelle armi e nelle arti di comandare senza perdere la bellezza dei gesti, delle movenze, della nobile eleganza. Ma non era facile, occorreva imparare le arti delle belle maniere, dal momento che l’abito sfarzoso non poteva bastare per risultare ‘fini’ e cortesi, occorreva il portamento, lo stile, la cultura nei modi di parlare, di sorridere, di essere in società, così come nell’intimità. Del resto fu addirittura Leonardo da Vinci a organizzare le favolose celebrazioni nuziali tra Ludovico e Beatrice: il rinascimento delle arti doveva fiorire anche nella vita – sicché Leonardo anche nei suoi dipinti fu maestro dell”essere alla moda’. Ma per i grandi del Rinascimento non si trattava solo di un gesto esteriore, di superfici, di effimera vanità, era invece ricercata una nobiltà d’animo che dall’interno doveva sbocciare nell’esterno. per donare bellezza al mondo anche nei modi di fare. E questo Massimiliano lo vedeva e lo sentiva. I motivi che lo portavano a frequentare gli Sforza a Milano non erano solo politici, ma anche avvinti dalla meraviglia di quella interiore bellezza che si rivelava come stupenda poesia dello stare al mondo, di vivere all’insegna delle ‘belle maniere’ e della moda (parola che viene proprio da ‘moderno’).
Si dice che una volta – nel 1496 – Massimiliano fu preso da tale irresistibile smania di recarsi in visita da Beatrice che partì da Vienna in tutta fretta, con il minimo della sua pompa magna, cosa disdicevole per un Imperatore del Sacro Romano, al punto che molti signori del tempo lo consideravano al pari di un grezzo castellano. Ma il cuore di Massimiliano era nobile ed è perciò che Beatrice impersonò per lui l’ideale della bellezza nell’anima e nella figura di una regina. Probabilmente se ne innamorò, ma la venerò solo con la sua stima, giacché Beatrice amava ed era riamata dal marito Ludovico. Purtroppo la nobile Beatrice morì assai giovane, nel 1497, pase a causa del terzo parto, e Massimiliano la pianse lungamente, così come scrivono i cronisti del tempo.
E’ questo solo un aneddoto storico per introdurre la nostra riflessione sui motivi psico-economici che videro l’affermarsi della cultura delle belle maniere nella modernità. Come vedremo, per molti aspetti si trattava solo di sfarzo e di prestigio onorifico – di narcisismo se vogliamo… – ma nell’intelligenza spirituale dell’umanesimo rinascimentale espressa da personalità delle arti, della filosofia e della politica, contemporanee a Massimiliano, la nobiltà del linguaggio e del vivere secondo la bellezza, rappresentava una sacralità laica, una grazia dello stare al mondo che la civiltà umana non aveva mai conosciuto prima di allora.
La Bellezza è una grazia, vivace e spirituale, la quale per il raggio divino prima si infonde negli Angeli, poi nelle anime degli uomini, dopo nelle figure e voci corporali. Marsilio Ficino (1433-1499).
Norbert Elias, studioso di filosofia e medicina pubblica nel 1933 Il processo di civilizzazione sul mutamento degli stili comportamentali, secondo una sorta di ‘etica della bellezza’ nel passaggio tra il Medioevo alla Modernità. Dal comportamento gestuale, alla mimimca facciale, all’intonazione della voce, secondo i nuovi codici del Galateo e dell’etichetta, sono fenomeni di superfice che tuttavia vanno ad imprimere profonde trasformazioni psicoculturali nei modi di essere e di agire.
La civiltà doveva diventare tale anche grazie ad una classe cortese che si distingueva per la raffinata codificazione delle maniere e dello stile di vita. I bellicosi cavalieri divennero posati cortigiani capaci di essere morigerati ed eleganti. Tali comportamenti ‘civilizzati in nome della bellezza’, divennero essenziali nella politica e nei commerci. Anche i mercanti dovevano avere modi nobili. Le scienze e la cultura non potevano fare a meno di ‘pubbliche relazioni’ fondate sui codici della nuova signorilità. Così che essere signori non poteva dipendere solo dalla potenza economica, o delle armi, ma anche dalla capacità di rappresentarsi, insieme a tutta la propria corte aristocratica, secondo le più esemplari e prestigiose modalità delle belle maniere. Se ciò si possa vedere solo come tentazione dell’effimero, oppure come estasi della bellezza esteriore, dipende dalla nobiltà d’animo di chi nel suo intimo agisce, secondo la sua intima consapevolezza, a prescindere di come l’osservatore esterno voglia giudicare. Possiamo dire che anche il narcisismo ha un cuore, e che non sempre il cuore è capace di bellezza esteriore. Però la possibilità di essere aggraziati non dovrebbe implicare di non essere spontanei e naturali. La nobiltà d’animo non può essere artefatta, essa in un certo qual modo dovrebbe scaturire da un istinto spirituale coltivato, che ricerca il modo per incarnare la bellezza autentico, nei sensi e nell’anima, nella comunicazione verso l’altro e verso se stessi. E in questo intento di esprimere il bello autentico anche nelle maniere, vi sarebbe una scuola autentica di civiltà come responsabilità di essere umani.
Ma nel seguente testo ragioneremo su come tra le migliori o le peggiori intenzioni nell’arte delle ‘belle maniere’, vi sia il divorante bisogno di competere nelle forme e nelle suggestioni del potere. Possedere i simboi di status, nelle pratiche di prestigio onorifico, tra lussi e agi smodati, può diventare volontà di potenza, e meglio a dire di dominio. Un vortice di emulazione e di megalomania che sconfina nel patologico, laddove la bellezza e la grazia, diventano supremazia, arroganza, smania di potere!
Attualità della Teoria di Veblen: NARCISISMO E MANIE DI GRANDEZZA AL POTERE
La teoria della classe agiata, scritta da Thorstein Veblen nel 1899, è una originalissima analisi del consumo e della distribuzione dei beni, nel quadro delle dinamiche sociali di egemonia e di potere economico e politico. Se solo si getta un primo rapido sguardo alla Teoria di Veblen emergono subito nuove prospettive di osservazione su questioni fondamentali dell’ evoluzione storico sociale: la nascità della proprietà, il costituirsi dei ceti religiosi e di potere guerresco, la relazione tra i sessi, la divisione del lavoro, le attività finanziarie, fino ad ambiti ‘sovrastrutturali’ o secondari, ma estremamente pertinenti, come l’ abbigliamento, il gusto e il design, le belle maniere, l’ uso del tempo libero, il sistema scolastico, le credenze e le superstizioni.
Le osservazioni di Veblen su questi differenti aspetti dell’economia, come della vita quotidiana, rivelano che, sin dall’ antichità e in tutte le diverse culture, per essere potenti socialmente bisogna ostentare il proprio prestigio attraverso l’ eccesso dei consumi e il dispendio di tempo nell’ ozio e in attività improduttive.
Veblen, con il suo stile irriverente, rispetto ai presupposti classici dell’economia, e la sua logica inoppugnabile, spiega che l’ intero sviluppo economico e sociale è ‘follemente’ ancorato alla logica irrazionale del consumo e dell’ ozio vistosi, fino al punto che può risultare più potente, non tanto chi possiede effettivamente di più, ma chi è in grado di trovare forme di ostentazione più esemplari e plateali. Alla radice dunque delle dinamiche socioeconomiche vi sarebbe la necessità ‘politica’ di acquisire prestigio onorifico, attraverso comportamenti e simboli di status fondati sul consumo e l’ ozio vistosi, tra i quali anche le cosiddette ‘belle maniere’
L’ostentazione dell”ozio vistoso’ allo scopo di connotare potere e prestigio onorifico e tutt’oggi in voga, quando ad esempio grandi personalità della politica, nonostanti tempi di crisi o di guerra si mostrano in TV intenti in piacevoli momenti di pesca, jogging , partite a golf e altre amenità. La strategia consiste dunque nello spettacolarizzare il grande potere del ‘Potere’, il quale nonostante abbia impegni mastodontici e gravi crisi da affrontare, possa trovare il tempo di distrarsi con gradevoli passatempi e nella cura dell’eleganza e delle kermesse. Un altro esempio di prestigio onorifico attraverso l’ostentazione di consumo vistoso a carattere più holliwodiano e fumettistico è quello del milionario, o presunto tale, che si accende un sigaro con la banconota da cento dollari.
Ma per Veblen non sono soltanto le classi agiate a servirsi dell’effetto di senso dato dal prestigio onorifico, poiché anche le classi subalterne, ad eccezione di quegli strati sociali in condizioni di vera e propria indigenza, proporzionalmente alle loro possibilità devono ostentare forme di ozio e di consumo vistoso, in ossequio alle leggi minimali dello status symbol popolaresco. Queste leggi onorifiche permangono tra i ceti meno abbienti, sebbene si traducano nella espressione di un modesto decoro, consistente nelle cure cosmetiche e nell’ abbigliamento (per quanto possibile secondo i canoni della moda, o almeno del giorno di festa), negli addobbi e negli ornamenti casalinghi, nelle attività sportive e ricreative di carattere popolare. Anche il falso lusso, il cosiddetto ‘taroccato’, o il gadget del tutto superfluo possono conferire un po’ di gratificazione narcisistica. Del resto solo attraverso tale ostentazione si può evidenziare di non essere completamente aggiogati alla schiavitù del lavoro e che si possiede qualcosa e almeno un po’ di tempo da dedicare alla ‘cura di sé’, ovvero, come volevano gli antichi latini, all’ otium cum dignitate.
L’ intero impianto della Teoria fino nei suoi dettagli più sottili valorizza con forza crescente le intuizioni di Veblen sulle motivazioni irrazionali che soggiacciono nel profondo dell’ economia, la cui vera natura sarebbe solo in apparenza imperniata sui saldi principi della razionalità e della matematica.
Evidentemente Veblen si riferisce ad una economia di mercato capitalista che, con la modernità e la rivoluzione industriale, ha costituito e costituisce il ‘sistema nervoso centrale’ della ricchezza internazionale. Se Marx è stato il critico più scientifico di tale ‘sistema nervoso’ in termini di economia poltica, Veblen lo è stato in termini di ‘psicologia economica’, rivelandone per diversi aspetti una patologia narcisistica, se non megalomanica, i cui sintomi ed effetti collaterali si propagano con effetti, anche tragici, in ogni cellula del tessuto sociale.
Dice Wright Mills:
Thorstein Veblen si rese conto che il mondo in cui viveva era dominato da quello che si potrebbe chiamare il ‘realismo dei pazzi’. Questa era – non si può usare altro vocabolo – la metafisica di Veblen, la profondamente radicata opinione che egli aveva della natura della realtà quotidiana americana. Egli credeva che proprio quegli ‘uomini d’ affari’ che tutti ritenevano personificazioni del più ostinato e serio spirito pratico fossero in realtà dei capitalisti utopisti e maniaci; che gli uomini della decisione, i quali guidavano i soldati in guerra e organizzavano la vita giornaliera dei civili in pace fossero in realtà dei pazzi dotati di grandi mezzi finanziari” (Prefazione Alla Teoria della classe agiata).
Tutto sommato, Veblen aveva ragione se si considera che i cento anni susseguiti alla sua opera, il nostro XX secolo, sono stati caratterizzati dai genocidi delle due guerre mondiali, dal continuo proliferare di guerre fredde e calde, dal crescente peggiorare delle condizioni di vita di vasti strati della popolazione mondiale, e da una inesorabile prassi di distruzione dell’ecosistema.
Del resto la “classe agiata” di cui parla Veblen è una classe di privilegiati che ha assunto tratti e comportamenti differenti nell’ evoluzione storica, ma che ha sempre mantenuto una costante: l’ incapacità di riconoscere le proprie contraddizioni interne dinnazi ad un ostinato desiderio di dominio, anche quando ciò avrebbe potuto evitare catastrofi e vertiginosi declini.
L’esibizionismo della bellezza e la condizione femminile
Le scelte politiche ed economiche delle ‘classi agiate’ nei diversi momenti della storia, non sarebbero state dettate soltanto dalle leggi del profitto economico, ma da quelle dello status symbol, la cui attuazione si fonderebbe essenzialmente sulla ostentazione del potere attraverso il “consumo vistoso” e l'”ozio vistoso”. Consumare in modo vistoso, cioè in misura oltremodo superiore rispetto alla media, e il rivelare, attraverso abitudini, scelte e comportamenti, di poter vivere senza sporcarsi le mani con il lavoro, (quindi di varie forme di rendita), sono secondo Veblen, le due modalità essenziali con cui le ‘classi agiate’ esprimono socialmente il loro prestigio onorifico. Ed è proprio a partire dalla relazione tra prestigio onorifico e divisione del lavoro che Veblen organizza i primi caposaldi della sua Teoria:
L’ Istituzione di una classe agiata è il risultato di una primitiva discriminazione fra le occupazioni, in conseguenza della quale alcune occupazioni hanno dignità ed altre no. Sotto questa antica distinzione le mansioni che hanno dignità sono quelle che si possono classificare tra le gesta illustri; senza dignità sono invece quelle faccende necessarie ogni giorno, nelle quali non entra nessun elemento glorioso (1899:10).
Veblen rileva che queste gesta illustri nell’ antichità erano costituite innanzitutto da attività predatorie come la caccia e la guerra, quindi dal governo, dal servizio divino pubblico e dai pubblici divertimenti, cioè attività non aventi un carattere direttamente produttivo o di quotidiana routine. Dunque, la prima “classe agiata” sarebbe stata costituita dal sesso maschile, mentre le donne sarebbero state oggetti di proprietà e di consumo, strumenti ai quali relegare le pratiche produttive della quotidianità.
Ma con l’evolversi delle attività socioeconomiche e della ricchezza sociale, anche la donna incominciò ad esprimere costumi ed abitudini orientate all’ ozio e ai costumi vistosi, e ciò in maniera proporzionale al livello di agiatezza della sua famiglia. Infatti l’agiatezza della donna doveva servire a far risaltare il prestigio del padre o del marito. L’ abbigliamento femminile, nella sua frivola antifunzionalità, la cosmesi, le unghia lunghe, ecc. non sarebbero nati soltanto come artifici di seduzione, ma come espedienti per ostentare la signorile aristocratica inoperosità di dame e damigelle, o comunque, nei più modesti ceti borghesi come ‘falsi indizi’, rivolti a celare le più umili e faticose mansioni della casalinga.
Naturalmente quanto più è agiata la classe a cui la donna appartiene, tanto più indizi ed espedienti diventano vistosi e raffinati: la cura puramente estetica della casa, la partecipazione ad attività caritatevoli, a ricevimenti e giochi di società, sono il segno comportamentale che distingue la gran dama, ma soprattutto sono il segno del prestigio del marito che sarebbe in grado di mantenerla inoperosa, se per le belle maniere e la bellezza. Perciò gli usi cortesi, nascono nelle corti, soprattutto per mostrare prestigio onorifico per procura attarverso le donne e ad onore degli uomini di famiglia. La casa della ‘regina della casa’ doveva traboccare, possibilmente’ di arredi prestigiosi. Mobili pregiati e suppellettili lussuose, servitù specializzate e superflue, sino ad arrivare all’ ausilio di dame di compagnia, sono ulteriori possibilità per accentuare l’ ozio e il consumo vistosi da cui trarre prestigio e potere.
La voluttuosa bellezza degli oggetti inutimente costosi
Per quanto concerne il prestigio che gli oggetti possono conferire al loro possessore l’analisi di Veblen è alquanto brillante, poiché mette in evidenza che il rapporto valore di scambio/valore d’uso, esprime un terzo ‘valore’ consistente nel maggiore o minore prestigio onorifico dell’oggetto. Se consideriamo ad esempio due cucchiai, il primo d’ argento stile ‘impero’, e il secondo d’acciaio ‘stile standard’, avremo che entrambi hanno il medesimo valore d’uso, ma il prestigio onorifico rappresentato dal cucchiaio d’ argento è superiore dato che è superiore il suo valore di scambio. Perciò le posate a tavola per quanto servano solo a mangiare devono essere il più bossibile costose e raffinate, cos’ che i commensali invitati a tavola comprendano bene il rango del loro ospite. Ed è così che l’argenteria come regalo di nozze è ancora in voga (sebbene le nozze lo siano meno) e laddove non c’è l’argento, le posate devono essere costose dal momento che, pur risultando minimaliste ed essenziali, sono firmate da originali e famosi designer.
Se insomma è possibile acquistare un oggetto funzionale e duraturo ad un prezzo x, e invece se ne acquista un altro di pari funzionalità e durata ad un prezzo, supponiamo 2x, ciò che viene acquistato con questo secondo oggetto non è tanto un valore d’uso, quanto una rappresentazione, o un segno di prestigio onorifico, quindi uno status symbol.
Spiega Veblen:
“L’ abitudine di cercare nei beni i segni della costosità superflua e di esigere che tutti i beni offrano qualche utilità di specie indiretta o antagonistica, porta a un cambiamento nei criteri con cui viene misurata l’ utilità dei beni. L’ elemento onorifico e l’elemento dell’ efficienza nuda e cruda non sono tenuti separati nell’ apprezzamento da parte del consumatore, e tutti e due formano insieme l’ indiscriminata utilità complessiva dei beni. Sotto il tipo di utilità che ne deriva, nessun articolo sarà accettato in forza della sola sufficienza materiale. Per la completa e piena accettabilità da parte del consumatore, esso deve anche mostare l’ elemento onorifico […]. E’ noto che scegliendo sul mercato al minuto i beni utili, i compratori sono guidati più dalla rifinitura e manifattura dei beni che da una qualsiasi traccia di utilità vera e propria. I beni per essere venduti devono contenere un apprezzabile somma di lavoro speso per dar loro i segni di un’ onorevole dispendiosità, in aggiunta a ciò che li renda adatti per l’ uso materiale al quale servono” (1899:123).
Anche per quanto concerne l’affermarsi dei canoni estetici che presiedono alla produzione e alla scelta dei beni, la teoria di Veblen induce a profonde ed originali riflessioni:
“La maggior soddisfazione derivata dall’ uso e dalla comprensione dei prodotti costosi e ritenuti belli, di solito è in gran parte una soddisfazione del nostro gusto per la dispendiosità cammuffata sotto il nome di bellezza. Il maggior apprezzamento dell’ oggetto più prezioso è molto spesso un apprezzamento del suo carattere onorifico superiore che non semplicemente della sua bellezza” (idem: 100-101).
Ma tra tutti gli oggetti della magione, la donna come ‘getto vivente’, doveva apparire come quello più adorno di bellezza preziosa, quindi abiti spettacolari, gioelli preziosi, capigliature da capolavoro, cure estetiche e grazia studiata anche attraverso veri e propri corsi di classe, portamento e belle maniere.
Dunque, intorno alla agiatezza e alla curatissima presenza della propria moglie bisognava costituire ulteriori forme di ozio e di consumo vistosi capaci di incrementare “per procura” il prestigio del capofamiglia. Si pensi alle dame di compagnia, all’invenzione di giochi e passatempi come il bridge e l’ora del tè.
La nobiltà aristocratica costituitasi nella modernità europea dovette soccombere solo con la rivoluzione francese, ma storicamente fu la classe agiata più inventiva in fatto di ozio e di consumi vistosi a scopo onorifico: dalla caccia alla volpe alle sontuose feste danzanti, fino alle scuole di galateo e al collezionismo di oggetti rari, costosi quanto inutili. La stessa servitù doveva esprimere una pedante ed ossequiosa conoscenza del cerimoniale e delle belle maniere, non tanto per una questione di efficienza, quanto per dare un ulteriore segno di lustro ai suoi padroni. Questi ultimi, infatti, servendosi di un personale ossequioso dell’etichetta, dimostravano di essersi fatti carico di spese e di tempi di formazione che avevano ben poca valenza funzionali, pratici e produttivi. A maggior ragione le donne potevano portare unghia lunghe e vestire abiti che arrivavano a impedire persino il movimento, pur di dimostrare che erano nullafacenti, se non di aver cura che lo sfarzo fosse sempre in auge e possibilmente sempre incrementato da nuovi raffinati dettagli.
Gioe e dolori dello Status Symbol
La situazione di spreco onorifico, in termini di tempo, di beni e di modi stare ‘in società’, alla corte degli ultimi Re di Francia viene così raccontata dal grande storico Gaetano Salvemini:
E i doni, i sussidi, le pensioni non hanno limiti […] quindi si moltiplicano di anno in anno gli uffici di corte, tanto meno necessari quanto più dispendiosi: ufficiali di palazzo, governatori delle case reali, capitani di capitanerie, ciambellani, scudieri, gentiluomini di servizio, gentiluomini ordinari, ufficiali di tavola, paggi, elemosinieri, cappellani, dame d’ onore, dame di compagnia, dame di camera […] Viveva pertanto alla corte un esercito dorato di fannulloni, una quindicina di migliaia di persone che consumavano fra stipendi, pensioni e gratificazioni, negli ultimi tempi dell’ antico regime, quaranta milioni all’ anno, cioè un dodicesimo delle pubbliche entrate (1965: 20).
Tuttavia questa politica portata alle sue estreme conseguenze, non può costituire una garanzia di successo permanente; più o meno a lungo termine, come avvenne nell’ Ancien Régime, essa conduce al tracollo. Si tratta di un fenomeno che gli antropologi definiscono con il nome “Potlach”[1], per cui lo spreco onorifico diviene un gioco al rialzo così eccessivo da condurre al disastro i suoi stessi giocatori e con essi intere comunità.
Le diverse modalità di ozio e di consumo vistosi, variano e si evolvono a seconda del tipo di società e dello sviluppo storico-economico. Dette modalità funzionano come segni o “atti segnici”[2] , connotabili in quanto simboli di status, i quali non soltanto servono ad esprimere il ‘prestigio onorifico’, ma anche occorrono per mantenere e ulteriormente sviluppare una condizione sociale di privilegio.
Sin dall’ antichità il mantenimento dell’ agio e della ricchezza doveva infatti poter contare su una politica psico-semiotica, capace di indurre consenso e deferenza verso il più forte, sia sul piano delle relazioni interumane, sia nel senso più ampio dell’ opinione pubblica. In altri termini, se si vuole detenere un potere sulla collettività, non basta essere ricchi ed oziare, ma bisogna anche dimostrare la propria agiatezza, poiché solo attraverso tale dimostrazione si riesce a raggiungere e a mantenere il vertice di una piramide di relazioni sociali ed interumane che garantisce la supremazia.
Ecco dunque, che si scatena una sorta di gara per primeggiare per quanto concerne la competizione tra potenti e potentati nell’ostentazione di consumi e di ozio vistosi, tra i quali i cerimoniali della vita politica e anche quelli delle occasioni mondane. La cura della bellezza, nelle sue forme più raffinate e spettacolari richiedeva artisti, precettori e maestri artigiani, affinché fosse stata espressa non solo nelle grandi opere e nelle arti, ma anche negli usi e nei costumi, nella preparazione dei cibi, nelle feste e quindi nel galateo, nell’abbigliamaento, nonché nei toni e nelle forme del linguaggio verbale e gestuale.
Le corti rinascinementali italiane, si distinsero come fucine di idee, di forme e di invenzioni per dare prestigio onorifico alla nobiltà. D’altra parte anche la Chiesa romana al fine di rendere glorioso il Signore Iddio, non si faceva mancare nulla per mostrare prestigio onorifico a scopo sacrificale – fenomeno che del resto si ritrova in quasi tutti i rituali religiosi. Fu Francesco l’alternativo oppositore allo sfarzo ecclesiastico, e la Chiesa trovò il modo di servirsene per fare da contraltare alla magniloquenza onorifica che diventava sempre più eccessiva e inaccettabile agli occhi del popolo, ma anche delle altre confessioni cristiane, per questa ragione francamente eretiche e scismatiche.
Gli umanisti fiorentini, tra i quali soprattutto Marsilio Ficino, furono coloro che seppero dare un carattere laico e antinarcisistico della bellezza e dell belle maniere a scopo di potere. Nelle loro idee e teorie seppero difendere il ‘cuore di leone’ della bellezza, come forza dello spirito e della mediazione tra le forze terrestri dell’umano e quelle celesti del divino (come ha osservato il grande psicoanalista post-junghiano James Hillman). Senza questa consapevolezza del valore intrinseco di una bellezza interiore che va ad emergere nella meraviglia delle superfici il Rinascimento non sarebbe potuto nascere nel suo spirito migliore. Ed è quindi anche per questo che Umanesimo e Rinascimento italiani hanno fatto scuola di bellezza nelle corti europei e nei movimenti artistici e filosofici dell’Europa della modernità: Per molti si è trattato solo di un insegnamento alla moda per meglio ricoprirsi di gloria, cionostante la folgorante ispirazione della bellezza autentica, nella nobiltà dell’anima ha lasciato il suo segno imperituro nella Modernità.
Peccato che per lo spreco onorifico da occidente ad oriente ancora oggi vengano perpetrate guerre di rapina, peccato per la natura che viene violentata, peccato per la povertà e la fame nel mondo. Ma se tutto ciò è perché pochi possano avere molto, potremmo auspicare che questo poptrebbe andare anche a bene se tutti avessero almeno abbastanza e se la natura non debba patire per i nostri eccessi di belllezza, e il nostro starpotere narcisista.
[1]Il Potlach è un evento cerimoniale di tipo agonistico ostentatatorio che si ritrova in tutte le civiltà arcaiche e primitive, in cui viene consumata una grande quantità di beni e di risorse al fine di una ostentazione onorifica di opulenza. La parola Potlach deriva dai nativi Kwakiult che giungevano a praticare tale cerimonia fino alla completa distruzione dei mezzi necessari per la sopravivvenza del gruppo (vedi M. Mauss, 1923). “Saggio sul dono” (1923) in Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1965.
[2] Per quanto concerne il concetto di “atti segnici” M. A. Bonfantini evidenzia che: ” […] è stato per influenza degli analisti del linguaggio (secondo la linea Wittgenstein, Austin, Searle) che ormai tende a diventare egemone negli ambienti semiotici l’ idea che i segni siano anzitutto atti segnici, e che dunque, correlativamente, la semiotica, come studio della prassi segnica, si configuri innanzitutto come pragmatica” (1984:13).