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MADRE-FIGLIA LA PIU’ POTENTE TRA TUTTE LE RELAZIONI PSICHICHE

La relazione madre-figlia, tra tutte le relazioni possibili tra due esseri umani, è considerabile come la più potente in termini di attaccamento inconscio. E’ ovvio che anche il figlio maschio registra un potente legame primario con la madre, ma esso nasce differente dalla matrice femminile, e quindi l’attaccamento non implica una identificazione. Madre e figlia sono legate dalla comune identità sessuale e questo genera una complessità relazionale speciale e profondissima, la quale però comporta insidie e problematiche specifiche. Si determinano quindi legami inconsci che ad un livello cronico, transitorio, periodico o a tratti sono disturbati da aspetti d’Ombra dell”inconscio madre figlia’. Ogni essere umano nella sua evoluzione deve riuscire a rendersi autonomo staccandosi dalla madre, non solo in termini pratici, ma anche per conoscere e realizzare se stesso, la propria natura autentica, e quindi ‘individuarsi’ (processo di individuazione – Jung). Certamente, non solo la relazione con la madre, ma con entrambi i genitori, determina dinamiche che influenzano nel bene e nel male l’evoluzione dell’individuo, ma il materno ha una sua specificità primaria, essendo il primo oggetto di attaccamento che viene percepito dal neonato, nelle prime fasi di vita, come non separato secondo sensazioni e visioni di tipo simbiotico e fusionale. L’io embrionale del neonato sente di essere un solo corpo con la madre. Questi concetti di base, sono ben noti, ma vanno ricordati per addentrarci sulla specificità delle problematiche inconsce della relazione madre-figlia. Diciamo che la separazione inconscia è più complessa tra madre-figlia che non tra madre-figlio, per la questione della comune identità sessuale sopra accennata. Ciò non vuol dire che le figlie debbano avere più problemi con la madre che non i figli, ma che si tratta di problemi con una loro intrinseca specificità Jung ha distinto nettamente il ‘complesso materno’ rispetto a quello del figlio, trattandoli con modalità diversificate.  In effetti il ‘complesso di Edipo’ è stato scoperto da Freud soprattutto in relazione dell’attaccamento del figlio verso la madre, per il quale nascerebbe un’ostilità inconscia con il padre rivale, e un’ansia da castrazione, intesa come possibilità di essere da lui puniti. Questo dramma della gelosia inconscia famigliare viene osservato anche come rivalità tra madre-figlia per assicurarsi un attaccamento privilegiato con il padre-marito. Fu Jung a suggerire a Freud l’idea del ‘Complesso di Elettra’ come adattamento al femminile del Complesso di Edipo. Il mito di Elettra non indica però un destino o un desiderio che conduce la figlia a legarsi sessualmente al padre, quanto come una volontà di sottrarlo alla madre, per curarlo, difenderlo, renderlo più felice di quanto la madre possa fare. Agamennone padre, di Elettra, fu ucciso dalla madre e dal suo amante Egisto. Elettra istigò il fratello Oreste a vendicarlo.  Jung considerava quindi il Complesso di Elettra non proprio come sovrapponibile a quello di Edipo ove il maschietto nutrirebbe un primario desiderio sessuale verso la madre. In buona sostanza Jung invitava a considerare che le bambine ahanno una relazione intima più forte con la madre rispetto a quella dei bambini, e ciò andava esplorato in profondità. Jung si sofferma a fondo sulla diade madre figlia in L’Archetipo della madre 1939-1954. Dunque il modello edpico al femminile è stato sottoposto a varie osservazioni critiche.

Mary Cassat

Del resto il complesso di Elettra non appare così primariamente legato all’attaccamento al seno materno, che sperimentano sia il bambino che la bambina. In effetti il padre ‘viene dopo’, in origine è l’attaccamento alla madre, in quanto relazione primaria, che determina le varie fasi evolutive e trasformative in direzione di un’autonomia pratica e psichica dell’individuo. Il condizionamento della madre sulla psiche determina comunque un imprinting che dura tutta la vita.  Quanto più si diventa coscienti della madre dentro di sé, tanto più si ha la possibilità di incontrare un proprio sé autentico e quindi individuarsi. Viceversa quanto più si resta legati inconsciamente al materno inconscio, tanto più le proprie scelte di vita, il proprio stato interiore, gli affetti, i desideri saranno condizionati secondo modalità nevrotiche, e finanche borderline e psicotiche. In termini semplici l’individuo, maschio o femmina, quanto più è legato ad un ‘complesso materno negativo’, tanto più non riesce ad avere accesso a parti di sé che possono renderlo più libero di essere e di fare, per cui in forme più o meno gravi registra disturbi e infelicità. Si tratta quindi di preservare, quando è possibile, una relazione con il materno sufficientemente buona, o comunque di elaborare tale relazione nel profondo, al fine di prendere le distanze dagli influssi negativi che può determinare. La difficoltà di distaccarsi dal matterno inconscio, tende a riproporre anche nella vita adulta desideri di attaccamento regressivo – ‘regressus ad uterum’ – e quindi difficoltà nella sfera narcisistica con compromissioni più o meno importanti della relazione con se stessi e con gli altri.

La madre è vissuta è fantasticata dal neonato, come totalità che offre nutrimento, sicurezza, tenerezza, piacere… perché dunque staccarsi da essa e mettersi a lottare per conto proprio in un mondo difficile e insicuro. La tentazione di restare attaccati alla madre è quindi fortissima, ma è altrettanto forte la voglia di vivere e di scoprire se stessi e il mondo. Si genera dunque una tensione inconscia tra attaccamento e separazione che determina un ‘complesso materno’, il quale può condizionare l’inconscio anche quando l’individuo è diventato adulto, ha ormai una sua propria vita e la madre non c’è più. La madre infatti non è solo una persona vivente, ma è anche un ‘oggetto interno’, una personizzazione che agisce nell’anima-psiche per tutta la vita, nel bene e nel male. La linea riproduttiva femminile, quindi ‘madre-figlia’ si trova in una posizione delicata, ma anche fruttuosa, rispetto all’influenza inconscia del materno. Possiamo dire che nella relazione madre-figlia vengono trasmesse informazioni, sensibilità e saperi di altissimo valore, ma nel contempo sono anche più alti i rischi di restare inconsciamente imbrigliate l’una nell’altra, come matrioske che condizionano reciprocamente l’una la forma dell’altra.

 

 

MADRI-FIGLIE MITICHE

La relazione madre-figlia è da sempre stata rappresentata nei miti e nelle grandi narrazioni per le sue misteriose potenzialità negative e positive. Nella letteratura, nella psicoanalisi, ma anche nei costumi e nei saperi popolari l’area della relazione madre-figlia ha una sua natura misterica, riservata, inaccessibile per il maschile. Il celebre mito greco della coppia madre-figlia Demetra e Persefone (detta anche Core; Persefone per i romani) è stato esplorato da Jung (Aspetto psicologico della figura di Core – 1941) e da molti altri studiosi al fine di comprendere il senso indecifrabile dei Misteri di Eleusi. Il mito narra di Demetra (per i romani Cerere), dea delle messi e quindi del cibo della terra, in angosciosa pena per la scomparsa della figlia Persefone. Demetra sapeva che Persefone era stata rapita da Plutone e trascinata da esso nel mondo infero, ma in verità più che di un rapimento si trattava di una fuga di amore. La ragazza si recava a raccogliere fiori nel prato, ma sperava anche nella possibilità di incontrare un ragazzo, il quale giunse nelle vesti di Ade/Plutone, signore del mondo sotterraneo. Si allude ad un mondo inconscio ove avvengono esperienze che vanno celate al pubblico, come quella della sessualità. Così avvenne che Persefone fece l’amore per la prima volta e venne de-florata, parola che allude al fatto che stava raccogliendo fiori. Demetra cadde in una depressione senza rimedio, fino al punto di non voler fare più crescere il grano e la vegetazione nutriente sulla terra. Tutti gli dei, incluso Giove, provarono a confortarla, temendo l’imminente morte di fame di ogni creatura vivente. Ma la madre Demetra, che è quindi anche una ‘madre natura’ non voleva saperne di rassegnarsi alla perdita della figlia. Avvenne allora che una dea madre alquanto vecchia di nome Baubo, simile ad un’anziana contadina, schietta e decisa, si pose davanti a Demetra affranta e le fece un gesto osceno di provocazione consistente nell’alzarsi le vesti per mostrare la vagina. Sembrerebbe quasi voler evidenziare una spudorata rivendicazione della libertà sessuale femminile, che una giovane ragazza deve pur prendersi il diritto di vivere. A quel punto Demetra scoppiò a ridere e in un botto le passò la depressione. Demetra e Baubo dunque andarono a cercare Persefone nel mondo infero, portando con loro un porcellino votivo, come offerta per celebrare i sacri e festosi riti  – i misteri di Eleusi –  per sancire un accordo che poteva rendere tutti felici, e cioè anche Persefone e Ade, oltre a Zeus e tutti gli dei. L’accordo prevedeva che Persefone e Ade sarebbero stati nel mondo sotterraneo come sposi per sei mesi, mentre i restanti sei mesi Persefone riemergeva sulla terra accanto alla madre Demetra. Con ciò si rappresentava l’immagine di una natura invernale che feconda il seme nel sottosuolo, per poi emergere nella bella stagione in forma di fiori e frutta. Non a caso Ade aveva fatto mangiare a Persefone un seme di melograno, affinché potesse radicarsi nel grembo terreno, unendosi al maschile, per il proseguire del ciclo vitale… L’incontro con Ade, e quindi una storia passionale e ‘focosa’ con il maschile, quale esperienza determinante per i processi individuativi e di differenziazione della figlia. E’ importante che la madre prenda coscienza di come può esercitare anche inconsciamente  influenze che inibiscano o rendano problematico la maturazione erotico-affettiva della figlia.

In questo mito dunque si rappresentano con straordinaria simbolicità e poeticità le energie naturali e psichiche che determinano un legame misterico e indissolubile nella relazione madre-figlia. In termini archetipici e di psicologia analitica possiamo quindi considerare che una totale separazione della coppia madre-figlia non è possibile, o almeno non nelle stesse modalità che sono possibili nella coppia madre-figlio (rappresentate da altri miti e narrazioni).

SIMBOLISMI MADRE-FIGLIA

Il simbolismo della coppia madre-figlia nelle fiabe può essere rappresentato nella relazione tra una principessa e un drago. Questi è la madre che vincola la principessa in qualche torre d’avorio, rendendole difficile se non impossibile la relazione con il maschile. Non si tratta di difficoltà che riguardano divieti espliciti e coercizioni imposte da regole, quanto di un legame inconscio che determina una problematicità complessuale della relazione madre-figlia, con problemi nella vita di entrambe. Il drago tuttavia può avere anche funzioni protettive e di indirizzo sapienziale del femminile, affinché la principessa non si getti tra le braccia di sedicenti cavallieri e quindi di una maschile inquietante. Si tratta dunque di preservare la trasmissione di una sapere identitario da donna a donna, senza però che questo diventi sottilmente inglobante. Il ragno è un simbolo materno negativo dal momento che con la sua tela semi-invisibile tiene le reti famigliari e le connette al mondo, poi però imprigiona la farfalla psiche di chi vorrebbe volare via e sottrarsi dal suo controllo. Ma in generale il simbolismo materno accentua fortemente la dimensione dell’ambivalenza, una duplice istanza che coniuga gli opposti, tra i quali quelli più estremi dell’istinto e dello spirito, della carnalità del partorire, dell’allottare, del mestruo e la sapienza animica dei sentimenti e del bene comune, tra Afrodite e Atena. Anche il ragno ha un simbolismo terapeutico, quando sottende la capacità materna di riarmonizzare in modo quasi invisibile i sottili equilibri che connettono l’affettività al piacere, ai sentimenti, alla responsabilità nelle relazioni dentro e fuori la famiglia.  In genere l’aracnofobia – paura dei ragni e di altri insetti – è relativa alla paura di un’affettività o anaffettività materna, la cui ambivalenza sfugge ad ogni controllo e reazione costruttiva, in quanto si infila in ogni ‘buco dell’anima’ e risulta inafferabile, veloce, molteplice e occulta come sono ragni e altri insetti.

Odilon Redon, l’Araignées qui pleure 1881

Tuttavia , nonostante queste trappole invischianti e invasive, la figlia essendo sessualmente identica alla madre, non può non approfittare della speciale trasmissione energetica e sapienziale che deriva dal  preservare, entro una certa difficile misura l’attaccamento originario al ‘drago materno’ ( o alla sua forma miniaturizzata come ragno), ma ciò non deve diventare una tentazione regressiva, divorante e destabilizzante.

Spesso consideriamo i problemi relazionali in modo piuttosto superficiale. Registriamo che non ci si capisce, che si litiga a causa di nervosismi, aspetti caratteriali o idee diverse. Imputiamo le incomprensioni a cocciutaggine, egoismo, competitività, esuberanze e debolezze varie. Ma tutto ciò è solo la superficie di un problema relazionale, ciò che emerge nell’immediatezza, o con considerazioni basate sul buon senso, per quanto ‘sensato’. Ci soffermiamo a lungo sugli aspetti coscienziali – sulla punta dell’iceberg, per dirla con Freud – e ci sfugge la complessità che resta sommersa nell’inconscio. Se però osserviamo la natura inconscia dei problemi relazionali anche da un punto di vista archetipico, e quindi nella profondità che determina i movimenti dell’anima, secondo le soggettività di ogni madre e di ogni figlia – senza impiegare i modelli generali come luoghi comuni – allora possiamo scoprire una chiave che ci consente di comprendere e di elaborare ogni storia di madre e di figlia nella sua specificità.

A volte madre-figlia vivono una relazione tendenzialmente simbiotica/fusionale senza saperlo o rifiutandosi di riconoscerlo. Sono attaccate e distaccate in modo difficile se non contorto. A volte i distacchi, i rigetti sono plateali, da parte dell’una o dell’altra o di entrambe. Altre volte entrambe indugiano in complicità che sforano i rispettivi confini e quelli degli altri famigliare. Un esempio per tutti è quello della suocera che invade matrimoni e fidanzamenti, o di una figlia che invade la vita matrimoniale o post-matrimoniale della madre, provocando crisi e rotture. Quando vi sono più sorelle, in genere ciascuna cerca di acquisire la casella migliore per mantenere una giusta relazione di dipendenza/indipendenza con la madre. Può però avvenire che una sorella tenda a giocare duro, con manipolazioni e seduzioni poco leali. La madre può diventare arbitro e correggere certe tendenze, ma qualora fosse tentatata dal mantenere una relazione di codipendenza invischiante può manipolare la competitività tra le figlie, o scegliere la predestinata, in quanto più adatta ad essere ruolizzata come ‘figlia preferita’ o al contraio ‘figlia pecora nera’, o ‘figlia debole e bisognosa, o ‘figlia prodigiosa’, o un insieme ambivalente di tutto ciò. L’importante che almeno con una figlia venga preservata una speciale relazione di codipendenza fusionale, provocando nelle altre o un senso di esclusione, o invece una maggiore possibilità di libertà e di emancipazione.

Ratto di Persefone, Bernini

MADRE-FIGLIA E IL MASCHILE

Nella codipendenza fusionale tra madre e figlia, la psiche dell’una dipende dall’altra in uno sfibrante conflitto tra indipendenza/maturità/emancipazione e dipendenza/protezione/proiezioni narcisistiche. E’ un legame d’amore viscerale che non permette alla figlia di crescere e alla madre di partorire una sua propria vita (regressus ad uterum). Scelte autonome e indipendenti vengono inibite, quasi che possano mettere a repentaglio la sicurezza e l’amore famigliare. Altre volte la madre incoraggia l’istintualità della figlia ad esprimersi in modo seduttivo, quasi che attraverso di lei potesse soddisfare e compensare desideri e rimpianti relativi alla sua propria esperienza erotica. In vari modi, non solo coscienti, la madre interferisce sulla vita della figlia e viceversa la figlia su quella della madre. Lottano allora tra di loro per mantenersi unite e nel contempo anche per staccarsi generando una dimensione tanto contraddittoria quanto patemica che trascina parenti, partner, amici, scelte di vita. In altri casi la fusionalità diventa simbiotica, nella vita psichica (idee, immaginazione, fantasia, libido, inconscio), come in quella pratica. Madre e figlia (ormai cresciuta) vivono sotto lo stesso tetto evitando con ogni scusa la possibilità di separarsi. Ciò determina nella figlia o un distacco dalla vita erotica, per cui non trova interessante nessuno, in una condizione antilibidica, o al contrario si scegli compagni che in fondo non è sicura di amare, così da potersi sempre sentire attaccata alla madre. Del resto trovare ‘quello giusto’ per quanto sia un suo desiderio, comportebbe il rischio di volarsene da un’altra parte e abbandonare la madre. Un’altra soluzione può essere quella della promiscuità o di acquisire un orientamento lesbico, ma con la pregiudiziale che nessuna compagna potrebbe equivalere l’amore di mamma. Dal canto suo la madre tende ad aumentare la sua indipendenza dal padre, in modo da rendersi sempre più disponibile per la figlia. Il padre che dovesse accettare in modo rassegnato o disadattato questa situazione sarebbe considerato – a torto o a ragione –  un debole e quindi svirilizzato e colpevolizzato per non essere risultato affidabile per la madre/moglie come per la figlia.  Qualora poi il padre avesse comportamenti negativi e disfunzionali, la moglie/madre potrebbe essere portata ad accettarli in modo più succube, in quanto ‘a causa’ della problematicità del padre-marito, si sentirebbe più giustificata o ‘costretta’ nel preservare un attaccamento regressivo con la figlia. La madre dunque in modo semiconscio potrebbe tendere a viziare la figlia, consentendole ogni capriccio fino a lasciarsi tiranneggiare, così da farla ‘restare bambina’ e quindi più dipendente. Una madre con queste problematiche di attaccamento regressivo e immaturo alla figlia potrebbe quindi o rinunciare alla sua vita erotica, o viverla in modo promiscuo, clandestino e in definitiva insoddisfacente. Nel caso in cui la madre sia divorziata, una disfunzionale codipendenza con la figlia, le imporrebbe di ricercare una vita erotica in clandestinità – magari con uomini sposati – oppure con uomini che, per svariate ragioni, non sono in grado di pretendere una relazione più costruttiva e matura (perché sono distanti, per difficoltà economiche, per problemi dovuti ad una loro insicurezza interna, ecc.). In ogni caso la figlia, pur preservando buoni sentimenti e buone fantasia sulla felicità erotica della madre, nel suo inconscio desidera e determina situazioni che possano mandar a monte le relazioni della mamma con altri uomini, tendendo a colpevolizzarla, al di là di ogni verità, del fallimento della relazione con il padre. Può accadere che la figlia venga attratta da uomini sposati e impegnati per il fatto che proietta la madre da punire o con la quale competere in una rivale, alla quale ‘rubare’ il maschile. Oppure viene attratta da uomini promiscui e traditori nel tentativo di redimerli, cosa che la madre non sarebbe riuscita a fare, per poi scoprire di ripetere uno stesso triste destino. Sono dunque moltelplici le influenze inconsce condizionanti tra madre e figlia, laddove i processi di differenziazione e di maturazione del legame non sono armonizzati e tendenzialmente restano regressivi.

Una madre con tratti narcisistici e borderline (come disturbo di personalità)  risulta veramente molesta, se non abusante, per la figlia. Ricordiamo il celebre romanzo Il ballo di Irène Némirovsky, nel quale una ‘madre stronza’ – espulsiva, anaffettiva, prevaricante – maltratta e umilia la figlia, ottenendo però che essa rimanga regressivamente legata   a lei, la quale diventa l’agognato oggetto materno/paradiso perduto e mai avuto da riconquistare. In altri casi può essere invece la figlia ad essere ‘stronza’ e quindi a mettere la madre in una condizione di sudditanza attraverso varie forme di minaccia e ricatto borderline, ottenendo così che la madre cerchi a tutti i costi di diventare migliore, ovvero sempre più schiava e succube della figlia.

Rapunzel

Vi sono poi casi di fusionalità tra madre e figlia che non appaiono per nulla perturbati. Si avverte solo che tra di loro c’è una relazione di cordiale superficialità e mutuo soccorso. In ogni caso per quanto riguarda la relazione con il maschile, se vi fosse lo spazio per essa, sono in due a decidere. In alcuni casi capita che la figlia, pur avendo una sessualità normale, riesca ad avere un’esperienza orgasmica e a legarsi con un ragazzo solo se la madre lo ha conosciuto, e si sia dimostrata in qualche modo approvante. In altri casi pur di sfuggire alla relazione fusionale con la madre, la figlia si lega ad un partner, o ad un susseguirsi di partner problematici e distruttivi, con ciò mira ad autodistruggersi per negarsi alla madre e per negarla. Insomma pur di consentire quel necessario distacco, madre e figlia devono lottare per distruggersi a vicenda o per autodistruggersi, impiegando a tale fine relazioni difunzionali e problematiche con il maschile, e preservando la loro relazione in un quadro socialmente involutivo e regressivante. In altri casi la madre che sublime le tendenze afroditiche conseguendo un femminile sapienziale del tipo Atena, tende a condizionare la figlia con dosi eccessive di studio, libri, corsi di musica e di lingue, o anche sportivi al fine di farle conseguire, oltre che virtù e conoscenza, anche una relativa autonomia dal maschile, quasi che non debba mai avere tempo e voglia di innamorarsi, con il rischio di slegarsi da lei per  legarsi ad un ragazzo.

La figlia quindi non riesce a maturare come vorrebbe, oppure non riconosce cosa vorrebbe, restando imbrigliata nel dilemma tra attaccamento regressivo/simbiotico e desiderio di rottura, che però spaventa perché viene sentito come una spinta distruttiva verso il materno e di conseguenza anche verso se stessa (dato che la psiche dell’una presenta aspetti fortemente integrati con quella dell’altra). Nascono e si ripetono penosi conflitti nel tentativo di ribellarsi ad una ‘prigione di dipendenza amorosa’, che si traducono in sterile odio repulsivo e rivendicativo, del quale poi ci si pente e tutto ritorna come prima: simbiosi. Si può instaurare un clima relazionale punteggiato da episodi conflittuali e dispettosità che traggono spunto da questioni relativamente banali, come il vestire, i gusti, i pareri sugli altri e sul mondo, gli stili di vita. Così anche quando aleggia un clima di pace si intravvedono sempre nuvoloni e temporali all’orizzonte, pronti a scatenarsi da un momento all’altro. Questa situazione si può risolvere solo con una profonda presa di coscienza (in particolare in psicoterapia o con esperienze di vita che stimolano il desiderio di autonomia, della madre come della figlia), possibilmente di entrambe, che può essere più efficacemente raggiunta con un percorso di analisi. Ciò è assai importante per la figlia affinché non ne risenta sviluppando la tendenza ad attaccamenti amorosi problematici, insicuri e delusivi, dal momento che il suo sistema erotico-affettivo e di attaccamento resta condizionato da una relazione immatura e regressiva con la figura materna. Tale condizione relazionale comporta sindromi e sintomatologie di carattere nevrotico e psicosomatico, con fasi acute e cronicità, e a diversi livelli di problematicità che possono riguardare le condotte alimentari, disfunzionalità sessuali , difficoltà di adattamento e autorealizzazione, crisi identitarie e dell’autostima.

Resta il  fatto che una bella relazione madre figlia è pur sempre la relazione più bella del mondo… ma bisogna mantenere il legame slegandosi!

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One Comment

  1. Giuliana Giugno 9, 2019 at 3:08 pm

    Ma chi sono queste madri che trattengono consapevolmente o inconsapevolmente la figlia all’interno dell Uroboro divorante, impedendo loro di crescere ed autonomizzarsi? voglio parlare di un caso…
    Molte volte sono donne che hanno conosciuto un maschile inaffidabile, sia nella figura paterna che nelle diverse figure di partner ai quali si sono legate. Padri assenti o incapaci di sviluppare nella bambina una fiducia nell’ uomo e nella possibilità di ottenere da lui riconoscimento e cura affettuosa, accompagnandola nell’affrontare il mondo esterno con sufficiente sicurezza e senza paure. Padri che hanno esercitato magari violenza sulla propria madre, generando angoscia e timore nella figlia. Sono madri che hanno cercato di riparare necessariamente il padre problematico, per poter ricevere le cure necessarie all’infanzia. Questo processo, questo tentativo di riparazione del padre interiorizzato per poter essere amata è destinato però a continuare tutta la vita, attraverso il legame con uomini altrettanto difficili, dimenticando i suoi veri bisogni e imprigionandosi in modalità relazionali dove ha sviluppato una dipendenza patologica, “io ti salverò, e tu allora potrai amarmi e prenderti cura di me”. Questa aspettativa che detta il copione di scelte affettive fallimentari rischia di trasmettersi alla figlia femmina, se la madre non ne diviene cosciente attraverso un lungo e doloroso lavoro su se stessa, affrontando anche la solitudine e l’abbandono ed il distacco dal partner problematico. Nella donna dipendente affettiva vivere la separazione ha un potere deflagrante immenso, perché è l’abbandono già vissuto della bambina che è stata e ne porta pertanto il senso fatale e tragico della continuità e della ripetizione. Non è la donna ad essere abbandonata ma è la bambina dentro di lei che rivive il dramma, ed in quanto bambina, senza strumenti cognitivi adeguati. Nella continuità di identificazione simbolica madre-figlia che l’ Uroboro rappresenta, (un serpente drago che divora se stesso disegnando un cerchio perfetto) la figlia femmina vive inconsciamente l’abbandono subito dalla madre, l’imago interna del principio paterno potrebbe non esserne completamente danneggiata se il proprio padre avesse dei requisiti che lo differenziassero in modo netto dalla figura del padre avuto dalla madre, ma questo spesso non è. La madre si è infatti legata ad un uomo difficile, assente o dipendente da sostanze, comunque incapace a sua volta di favorire un processo di crescita perché narcisisticamente con i suoi problemi si pone al centro di attenzioni e di cure che dovrebbero essere riservate alla figlia.
    Il processo di identificazione primaria con un femminile imprigionato in una relazione di co-dipendenza (utilizzando il concetto della psicoterapeuta americana Norwood) produce nella figlia femmina sentimenti contrastanti: da una parte sollecita intensi sentimenti di cura amorevole e riparatoria, dall’altra altrettanto intensi sentimenti di rabbia contro il doppio ruolo di vittima e carnefice, avuto dalla madre nella relazione con il padre. L’ambivalenza dei vissuti familiari, in presenza di una relazione tra genitori di co-dipendenza affettiva, fa percepire la madre da una parte come testimone di un femminile destinato a soccombere e quindi inefficace nel contenimento delle problematiche che si originano dal rapporto con il maschio, dall’altra come causa stessa dei problemi del padre per i comportamenti controllanti e aggressivi che la madre ha necessariamente avuto nella speranza di limitare i danni di salute e pratici delle disfunzionalità del partner. Questo atteggiamento passivo-aggressivo è stato particolarmente evidente nella fase di recupero della madre che, nutrendo la decisione di allontanarsi dal padre, magari senza un vero supporto psicologico, ha messo in campo atteggiamenti svalutativi e denigratori dell’altro genitore.
    Questa ambivalenza della madre viene percepita dalla figlia tutte le volte che la madre ha un comportamento femminile passivo (come può accadere nella relazione con un nuovo partner) perché la passività evoca il rischio che si riaffacci anche l’altro aspetto della madre, quello della collera e dell’aggressività. Il comportamento passivo o arrendevole della madre fa sospettare che stia subendo un sopruso, al quale poi si ribellerà con conseguenze pesantemente traumatiche perché farà emergere una ribellione incontenibile. Insomma la madre appare incapace di destreggiarsi in una relazione armonica, che concili senza traumi i due aspetti di se e pertanto deve essere protetta in primis da se stessa. Questa percezione alterata del sentire materno, provoca necessariamente anche delle conseguenze nella relazione madre-figlia, ponendosi come fonte di continua ansia, anche quando non esistono i presupposti, come nel caso di normali contradditori con la madre, su questioni banali e che non mettono minimamente in discussione la base di comune affetto e stima reciproca. La diagnosi di comportamenti border line, o di riconoscimento entro tale sfera, viene dunque automatica ma in questo caso, non coglie il vero aspetto del problema, ossia un misto di percezione alterata della madre, (e del padre) ansia e rabbia difensiva.
    Le difese aggressive sono frequenti soprattutto in adolescenza, quando il processo di affrancamento dalla madre è reso ancora più difficile dal sentirsi invischiata in una complicità colpevole con lei che è seguito alla separazione dal padre. Questa complicità è avvertita delittuosa e colpevolizzante a livello inconscio. Come si poteva diversamente nella mente di una pre-adolescente giustificare l’allontanamento dal padre? Un uomo non violento, apparentemente arrendevole e disponibile ad assecondare tutti i capricci della figlia. Madre e figlia compivano allora una scelta lesiva del padre, che sempre all’apparenza si dimostrava fino all’ ultimo disponibile ad assecondare, a giustificare anche la decisione del partner, evitando però ostinatamente di riconoscere il vero problema di fondo nella sua dipendenza e nei comportamenti delusivi verso le legittime aspettative di entrambe, moglie e figlia, quasi a dar a intendere che si trattava di un capriccio della madre non sufficientemente motivato . “Perché separarsi? Non ne vedo il motivo..”
    Anche la figura del padre si pone dunque come ambivalente in modo netto: padre affettuoso ma nello stesso tempo insincero e capace di comportamenti dannosi nei confronti dei propri affetti familiari (come è accaduto piu’ volte nel corso degli anni, con effetti profondamente traumatici nella figlia).
    La sfida di guarigione per la figlia è dunque quella di ritrovare la credibilità delle due figure genitoriali integrando gli aspetti buoni e cattivi, di arrendevolezza e aggressività per quanto riguarda la madre e di affidabilità e tradimento delle promesse da parte del padre; questa rappresenta ovviamente anche una occasione di crescita per il suo futuro relazionale, permettendole di vivere le relazioni con l’altro senza dover esercitare un controllo illudendosi di tenerne a bada gli aspetti controversi e avvertiti come pericolosi. L’atteggiamento ipercontrollante con tratti fobici si è già manifestato durante l’adolescenza con la messe in atto di rituali, all’apparenza senza significato, come l’apertura e chiusura dei cassetti della propria camera da letto secondo un ordine preciso, il riallineamento degli zerbini di ingresso sul pianerottolo, (che una volta hanno anche provocato l’affacciarsi della vicina per chiederle il motivo di quello che sembrava un “dispetto”..). Il rituale le permetteva di controllare gli eventi della giornata, esorcizzavano la venuta dell’ inatteso, con la sua rischiosità imprevedibile.
    La sfida per i genitori è invece quella di comunicare le proprie emozioni senza rimuoverle, esprimendole in modo il più possibile chiaro, all’interno di un dialogo che faccia affacciare anche il lato d’ombra ma contemporaneamente anche la disponibilità a conoscerlo, per dominarlo e integrarlo nell’agire, pensare e vivere quotidiano; quello che lei ha il diritto di sperimentare all’interno di una famiglia, mentre porta avanti gli impegni ed i divertimenti della sua età (riconoscendole un bonus, ogni tanto, per eventuali regressioni che sappiamo essere causate dalla paura e dall’ansia di controllo).
    In tutto questo c’è la possibilità anzi la si auspica, di nuovi partner per entrambi i genitori, che muovendosi con sensibilità e consapevolezza, vogliano anche loro porsi all’interno di un dialogo che riconosca luci e ombre di una personalità in crescita, sapendo che la stessa sfida li riguarda anche personalmente su altri fronti, sapendo che la regressione, la gelosia, ed il conflitto con un imago genitoriale alterata che riverbera continuamente traumi non è una battaglia che abbiamo già vinto. Sapendo soprattutto che non sono solo i figli a crescere e a trasformarsi ma che la stessa legge di trasformazione opera per fortuna anche dentro di noi, che continuamente cambiamo pelle e ci trasformiamo, divorando le parti non più utili di noi stessi come fa appunto l’ Uroboro, il serpente del mito. Nella parte alta del serpente ci sono due ali, segno alchemico di una trasformabilità che deve tendere verso l’ alto, verso la spiritualità, mentre la bocca ingoia le parti basse della materialità più rozza e istintiva, gli attaccamenti, la presunzione e tutti i sentimenti più bassi, sempre dettati dalla paura. Bisogna insomma saper essere duttili come il serpente, che si ripiega su se stesso e nel farlo disegna un cerchio perfetto! Il cerchio è anche il simbolo dell’ abbraccio, di un girotondo, perché siamo ancora e sempre bambini e sempre lo saremo, anzi più vivo è il ricordo di noi bambini più possiamo capire le problematiche degli altri, che nascono sempre o quasi in quei primi anni di vita, quando chiedevamo sicuri di avere una risposta, finchè abbiamo smesso di chiedere. Ed il rischio è sempre li..che smettiamo di chiedere e soprattutto che smettiamo di domandare a noi stessi, smettendo di conoscere.

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