Indifference-reference PROGRAMMA
Roberto Rossini Indifference / Reference arte visuale, video, performance
a cura di Ferruccio Giromini – catalogo in galleria con testi di Caterina Gualco, Ferruccio Giromini
martedì 6 maggio ore 18:30 Inaugurazione Galleria UnimediaModern – mercoledì 14 maggio ore 18:30 Compilation video Galleria UnimediaModern – venerdì 30 maggio ore 21:00 Performance Palazzo Ducale – Cortile Maggiore – venerdì 27 giugno ore 19:00 Video installazione Inaugurazione Galleria d’Arte Moderna di Genova
Alla pratica della performance, privilegiata come ‘rituale di esposizione pubblica’, viene affiancata una rifles- sione sui meccanismi trasversali del processo creativo – in particolare l’indagine sul rapporto caso-necessità – che si concretizzano in una serie di lavori di tipo concettuale, punto di incontro tra un’intenzionalità e un accadimento. Il loro tratto comune è di essere costruiti attraverso ‘resti’, frammenti di un qualche cosa che è accaduto (avvenimento aleatorio, coincidenza, citazione…) e di cui si può avvertire la discendenza: detourne- ment di immagini, recupero di piccoli oggetti comuni sottratti alla decadenza, frammenti di frasi, residui di azioni performative, found footage – nel caso dei video. La composizione finale sembra muoversi nell’inconscio, l’inconscio diventa gesto poietico: la sola ‘referenza’ rimane quella del ‘gesto’, unico atto capace di sottrarsi al dominio utilitaristico-economico-semantico.
ROBERTO ROSSINI
Dalla metà degli anni ‘70 è attivo sulla scena italiana della performance art. Nei primi anni ‘80 è stato tra i fondatori del Centro UH!, realizzando performance, trasmissioni sperimentali di drammaturgia radiofonica per la RAI, interventi di videoarte e mail-art e curando la direzione artistica della rivista UH!. Ha partecipato a rassegne internazionali, con eventi ambientati spesso in spazi atipici come edifici industriali e storici, luoghi di culto e di cura, ambienti naturali o defunzionalizzati. Ha tenuto workshop e conferenze sulla performance e sulla comunicazione multimediale. Ha collaborato con il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce di Genova con performance, mostre e progetti di didattica. È membro della Direzione artistica di Art Action International Performance Art Festival di Monza. Docente di Teoria della performance all’Istituto per le Arti Tradizionali – Museo delle Culture del Mondo di Genova. Nel 2012 ha pubblicato il libro La performance tra arte, mito, rito e gioco, edizioni Utopia production.
dal 6 maggio al 7 giugno UnimediaModern Contemporary Art –Palazzo Squarciafico – Piazza Invrea, 5/b – 16121 Genova Italia Tel. +39 010 2758785 www.unimediamodern.com unimediamodern@libero.it
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GENOVA 28 – 29 – 30 giugno 2013
PERFORMANCETHERAPY
Programma per partecipare:
Performance Therapy
Laboratorio performativo diretto da Roberto Rossini
Supervisione psicoarchetipica di Pier Pietro Brunelli
PerformanceTherapy non è una terapia della persona, è una terapia della Performance. Terapia dal greco vuol dire ‘servizio’, inteso come ‘dedizione nel prendersi cura’. Questo servizio, questa cura, questa terapia è necessaria per l’individuo, per la collettività e per l’ambiente. Performance, nel suo senso originario, deriva dal francese parfourmir, dove par = per e fourmir = fornire… a sua volta fornire viene da forno, perciò la Performance può, essere intesa come una sorta di ‘forno fournir alchemico’, affinché possano essere ‘s-fornate’ e trasformate le sostanze organiche, psichiche e fisiche che nutrono la vita.
Il ventre materno è in tal senso un luogo dove la natura esprime la Performance del mistero vitale; così il cosmo, il sole, il cuore della terra sono i luoghi e gli agenti della grande Performance nella quale siamo immersi.
La cultura occidentale, tecnologico-consumista, deificante la finanza e il mercato, ha perso una tradizione originaria dell’’anima-psiche’, essa resta occultata da un pensiero filosofico e scientifico ‘unico e unilaterale’, e da una mconcezione della religiosità troppo manipolata da potentati economici e politici.
La più libera via occidentale, che si è sviluppata per quanto concerne una possibilità viva e creatrice di ‘fare anima’, è quella della ricerca artistica, ma l’arte deve poter ritrovare un suo senso originario, se non vuole essere ridotta solo a superficie spettacolare e mercato.
Per questo motivo l’arte contemporanea ha bisogno di una PerformanceTherapy, come esperienza di rielaborazione creativa dei messaggi e delle grida provenienti da tradizioni divenute nomadi, oltre che dalla ‘Massmediopoli’ (Megalopoli + Rete).
Artaud è stato il primo uomo di teatro a capire che l’Arte dell’attore consisteva in un atto di ‘PerformanceTherapy’ in quanto esperienza diretta di conoscenza attraverso la manipolazione
dell’ordine del mondo, con l’ausilio di ogni possibile tecnica creativa ed artistica, e con ispirazioni provenienti da ‘speciali stati di coscienza’, indotti anche attraverso pratiche e oggetti rituali risalenti a tradizioni magiche e religiose. Oggi, siamo di fronte ad un ‘meticciato’ delle tradizioni d’origine, un tentativo di attraversamento e di incontro tra diverse culture, che può dare luogo allo sviluppo di una nuova dialettica tra ricerca e tradizione. Questa ‘nuova dialettica’ è evidente nei diversi tentativi d’incontro tra arte e rito, tra medicina e spiritualità, tra responsabilità della questione sociale e cura del sé.
E’ importante che ciascuna persona abbia la possibilità di esprimere con una sua Performance cosa sente e vede dentro di sé, cosa sente e vede nel mondo, o anche oltre di esso… potrebbe nascere un ‘atto psicomagico’ (Jodorowsky), ispirato da un’energia archetipica ‘albescente’, come quella dell’Alba (Albedo) che nasce ogni giorno dalla grande fornace solare.
Pier Pietro Brunelli
PERFORMANCETHERAPY
offre la possibilità di fare esperienza diretta di una forma altamente ritualizzata di autoconoscenza e di espressione del Sé. Ciascuno può partecipare a PerformanceTherapy entro uno spazio laboratoriale riservato ad un piccolo gruppo di persone.
Si potrà sperimentare la propria creatività partendo da un vissuto personale e utilizzando liberamente ogni ispirazione, azione, materiale, tecnica, immagine, narrazione… ciascuno sarà coadiuvato nel trovare la condizione umana, attiva e ricettiva, psicologica e sociale, per poter creare, proporre, condividere il proprio ‘atto psicomagico’.
Un sapere ispirativo ‘forte e archetipico’ sarà tratto dall’antico testo oracolare cinese I KING, che potrà essere consultato individualmente entro un particolare contesto esperienziale (Temenos performativo) volto ad acuire la concentrazione, la sensibilità e l’ascolto interiore.
Qui vogliamo affermare che la Performance, intesa come atto creativo e ricettivo, che coinvolge nella libertà, nel rito-gioco e nella creatività, può essere considerata come la forma artistica che più esprime il senso delle artiterapie. La Performance lascia liberi sull’uso di una o più tecniche espressive, consente di ‘far agire la psiche attraverso il corpo e il mondo esterno’, in uno spazio e in un tempo che è insieme simbolico e concreto. La Performance ci avvicina alla possibilità di essere ‘autentici’, di compiere se stessi attraverso se stessi, in quanto il suo scopo è proprio quello di liberare le possibilità ricettive e creative che altrimenti dovrebbero sempre sottostare alle condizioni del lingiaggio, della cultura, dei ruoli e delle maschere.
In senso junghiano possiamo considerare la Performance nella Terapia, come una pratica di “IMMAGINAZIONE ATTIVA”, tema che caratterizza anche la filosofia e la ricerca dell’Associazione Culturale Albedo, per la quale quindi la Performance è una forma fondamentale di esperienza e di conoscenza.
In questo articolo vengono offerte informazioni, testi e riflessioni di base affinché la Performance possa essere concepita come un atto ‘AUTO-TERAPICO’, condivisibile con altri, talvolta con il supporto di un dialogo terapeutico con un altro Performer o con un terapeuta della psiche. Ma quando si comprende il senso profondo della Performance, e si impara a realizzarla, ciascuno secondo la sua immaginazione, allora l’atto ‘Auto-terpico’ si compie in se stesso come dialogo tra conscio e inconscio, o tra parti di sé che altrimenti non avrebbero modo di connettersi se non in modo coattivo e condizionante. La Performance consente di elaborare contenuti inconsci rimossi e aree complessuali, paure, infelicità, gioie, speranze, affinché si possa esperire una maggior sintonia con se stessi, diventare EGO-SINTONICI, quindi piu’ vicini al SE’, e cioè all’ asse IO-SE’ che junghianamente ci individua, ci fa conoscere la nostra AUTENTICA INDIVIDUAZIONE come soggetti che sono parte della totalità, ma che rispetto ad essa sono portatori di un loro assoluto, di una loro unicità e irripetibilità nel tempo e nello spazio e, che quindi li rende adatti ad essere con un senso e un valore nell’eternità e nell’infinito.
E’ fondamentale, in ogni psicoterapia, che l’essere umano prenda coscienza del suo essere e del suo senso nell’universo, e questo che fondamentalmente lo fa essere vivo veramente e gli dà la forza per accettare la vita e la morte. La Performance può dunque essere intesa come la pratica principe delle ‘Artiterapie’, quanto più la si esplora vivendola e partecipandola, e questa è un’esperienza potenzialmente accessibile a tutti perché è radicata nel gioco, nel sogno, nell’immaginazione e non ha necessità di tecniche rigidamente formalizzate. Cionondimeno la Performance non è un ‘passaggio all’atto’ disordinato e scomposto delle proprie frustrazioni dei propri bisogni, ma è il tentativo di costruire amorevolmente un linguaggio dell’anima che possa provocare ed essere accolto, che possa instillare una scintilla di spirito nella quotidianità, e renderci quindi extra-quotidiani, non sovradeterminati dalla legge che snatura e impoverisce la possibilità di essere nello spirito secondo l’ispirazione del proprio demone o del proprio angelo, o di entrambi.
Gli esseri umani sono sia animali e sia spirituali, la Performance è una terapia, quando è vissuta come una libera possibilità di esperire questa incommensurabile contraddizione che è il mistero stesso della vita.
Lo scopo di questo libro è quello di analizzare la scena delle arti d’azione – genericamente definite performance – ricercandone la funzione antropologica, indagando le reciproche influenze con le avanguardie artistico-visive, il teatro sperimentale e le scienze psico-sociali.
Questo libro offre occasioni di confronto in merito al significato e alle tecniche di progettazione dell’opera vivente, raccogliendo una serie di testimonianze significative – sia quelle dei protagonisti della storia della performance, che quelle più prossime – affiancandole alle voci del ‘sapere’, attraverso quei testi che sono diventati le prime riflessioni sulla action art contemporanea.
Il risultato è una approfondita analisi, non solo teorica, frutto di alcuni anni dedicati dall’autore alla pratica, alla teoria e alla nomadica dell’arte delle arti.
per richiedere il libro inoltrare mail a: info@ontheground.it
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Note su Performance, Simbolo e Psiche – di Pier Pietro Brunelli*
Roberto Rossini Psicomagia dell’atto performativo
La parola performance, secondo l’Oxford Dictionary giungerebbe al ‘middle english’ dalla parola parfourmir dello ‘old french’, dove par=per e fourmir sta per fournir= fornire.
Dunque performance, etimologicamente indica qualcosa che serve per fornire… Fornire che cosa?
Prima di fornire una risposta osserviamo che la parola ‘fornire’ deriva da forno. Così che performance ha parecchio a che fare con il forno, quindi con qualcosa che viene forgiato e sfornato, dove è fondamentale agni, il fuoco vitale, il fuoco industriale, il fuoco sacro.
Allora forse per comprendere cosa può o cosa vuole fornire una performance dobbiamo ricordare un momento che cosa rappresenti il forno, vale a dire la sede che governa i processi trasformativi del fuoco…
Il forno è il più primordiale simbolo/strumento dell’evoluzione dell’umanità.
I forni comparvero in epoche preistoriche e permisero lo sviluppo dell’Età del Bronzo. Nelle fornaci infere Efesto/Vulcano forgiava portentosi strumenti di lavoro e di guerra. Il controllo e l’uso produttivo del fuoco è espresso dal mito di Prometeo, cioè il mito che racconta l’umano riscattarsi dal potere degli dei e dagli ostacoli della natura.
La dea Estia (per i romani Vesta) è la protettrice del focolare domestico e dei sacri fuochi dei templi. Nel forno si fa il pane: il più mitico degli alimenti, dal paganesimo alla cristianità.
Nella fiaba il forno ha un ruolo ambivalente. Da una parte è un simbolo materno e nutritivo, da un’altra parte presenta caratteri inquietanti, per la sua capacità distruttiva, dal momento che in esso tutto può bruciare e incenerire.
Gli alchimisti consideravano il forno come un fondamentale simbolo e strumento della trasformazione, in particolare per quanto attiene alla fase del superamento della Nigredo verso l’Albedo…
Dunque possiamo pensare alla performance come qualcosa per fornire trasformazione: performance/trasformance. Ciò fa comprendere anche che la performance essendo per sua natura intrinseca una pratica di trasformazione non può diventare ‘fissazione’ come nel caso di altre forme artistiche che si costituiscono in una oggettualità, un testo, un atto codificato e prescrittivo (come in gran parte del teatro). In tal senso l’opera d’arte può essere considerata o come il prodotto che fissa la trasformazione o come il processo stesso della trasformazione, vale a dire come ‘performance’.
Ma cosa vuol dire fornire processi di trasformazione? C.G. Jung nel 1912 scrisse un celebre libro, che rielaborò nell’edizione del 1952, intitolato Simboli della trasformazione. Questa ricerca lo portò ad un forte distacco da Freud. In particolare Jung sosteneva che la libido è da considerarsi come una energia psichica totale, quindi non solo di carattere sessuale, ma anche riferibile alla produzione di simboli. Un simbolo, secondo Jung si differenzia dal segno perché è il ‘precipitato’ culturale e naturale di una sorgente archetipica dell’inconscio collettivo, dalla quale il simbolo ricava una sua carica energetica trasformatrice. Il simbolo è un fenomeno energetico che spazia dall’eros al sacro e, in determinate circostanze è capace di trasformare gli individui e la collettività. Il simbolo non serve solo per comunicare, ma in determinate condizioni esso provoca trasformazioni della psiche e dei comportamenti a livello individuale e collettivo.
Ciò non vuol dire che i simboli siano sempre trasformatori verso il bene, essi possono anche provocare una caduta nell’ombra e quindi una involuzione distruttiva. Questo avviene quando il sim-bolo si scinde e diventa dia-bolo… e quando non vi è la ‘capacità simbolica’ di ricomporre le dualità, le antinomie, i conflitti e le unilateralità della scissione.
Quando ‘psiche’ guarda la performance in essa può quasi sempre scorgere il tentativo di ‘patologizzare’ e di ‘fare anima’ esprimendo sul piano simbolico ossessioni, fantasmi, complessi a scopo liberatorio. Bisogna però capire se si tratta di liberazione, di catarsi, di esorcismo – quindi di una effettiva capacità simbolica – oppure di una ‘segnicità narcisistica’ che si esprime come coazione a ripetere, emulazione, maniacalità, rabbia e quindi come condizionamento più o meno coercitivo e distruttivo. Io credo che il ‘forno della performance’ dovrebbe essere simbolicamente trasformativo, non semioticamente distruttivo. Naturalmente le performance ciascuno le fa come vuole, tuttavia a me non piacciono tutte, preferisco quelle che mi sembrano essere trasformative, e quindi capaci di fornire ‘simboli vivi’.
D’altra parte chi può giudicare in termini etici una performance? Chi può dire quando questa sia buona o cattiva e quando la sua fornitura simbolica sia creativa o anche ‘distruttivamente creativa’… la performance va al di là del bene e del male, quindi in che senso la performance può fornire qualcosa di buono? Io credo che qualcosa di buono, l’oggetto buono, sia qualcosa che ha la capacità di integrare il male, di accettare l’ombra, di riportare a sé la pecora nera, o di diventare ‘blu’ come Shiva che assorbe i mali del mondo. Intendo dire che la performance fornisce una sorta di possibilità sacrificale, dove viene offerto un atto espressivo che ricompone la contraddizione tra bene e male, corpo e psiche, materia e spirito, intelletto e sentimento, maschio e femmina, conscio e inconscio, vita e morte… In tal senso la buona performance ricompone in un atto sim-bolico l’aspetto dia-bolico delle dicotomie, delle scissioni, delle separazioni. La ricomposizione simbolica che la performance può generare gioca in termini estetico-simbolici con la tensione tra gli opposti, affinché venga fornita una energia compensatoria, di comunione, di riequilibrio, di trasformazione generatrice.
Dunque, in un mondo dove la parola fornire riguarda soprattutto le forniture di beni industriali, di energia elettrica, di pezzi di ricambio, e quant’altro faccia business – la performance fornisce simboli. A questo punto va osservato che nel clima posicoculturale in cui viviamo i simboli appaiono come ‘roba senza valore… qualcosa di simbolico, appunto, che non ha nulla di concreto’. E poi, affinché qualcosa abbia valore bisogna definirlo con precisione, per cui si tende a voler ben sapere che cosa sia un simbolo, in termini logici, razionali, ‘letterali’.
Ad essere sincero non si potrebbe dire che cosa sia un simbolo con precisione, sarebbe una definizione autocontraddittoria, perché il simbolo non ha un tipo di precisione che può essere soggetta a definizione precisa… L’indefinibilità logica del simbolo è coerente con il concetto junghiano di simbolo, perché esso, secondo Jung, in termini semiotici è un rinvio a qualcosa di non conoscibile, qualcosa di trascendente, che sfugge ad una definizione univoca e deterministica. Il simbolo si apre all’illimite, al non noto, al mistero. La parola ‘mistero’ vuol proprio dire ciò che non si può dire attraverso segni e parole, ma che si può solo percepire nell’esperienza simbolica. Seppure cosa sia il mistero sia stato scritto e svelato in tutte le lingue e in tutte le religioni, nessuno può dire davvero cosa esso sia, esso è in una energia sensibile (di sensibilità e di senso), esso è in una corporeità di anima, esso è in una ‘esperienza simbolica’… Anche la performance, quando è agita e vissuta con consapevolezza è una ‘esperienza simbolica’, è una ‘psicoperformance’, cioè un vascello che porta l’anima verso l’irragiungibile, verso il ‘mistero’…
E’ fondamentale che qualcuno crei ‘esperienze simboliche’ per fornire simboli, e oggi questo è particolarmente importante perché la dimensione psicoculturale della globalizzazione e della scienza occidentale tende ad annullare ogni anelito umano verso il mistero, verso una visione poetica del mondo e della vita. In un mondo di macchine l’essere umano deve essere efficiente similmente ad esse, e quindi deve essere capace sempre di trovare risposte coerenti a domande coerenti, così che tutte le domande alle quali non si può rispondere coerentemente sembrano inconsistenti, senza senso. Ma il senso è apertura, è capacità di essere onestamente presenti nella contraddittorietà della vita e della morte, il senso è dunque mito, sogno, immaginazione, sguardo che attraversa la materia e la integra nello spirito, perché la vita umana è fatta di una materia immateriale che si materializza ed ha bisogno di simboli. Jung ha dimostrato che senza simboli la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere, per cui la produzione di simboli è una necessita naturale e culturale. Così la performance fornisce simboli all’anima-psiche, simboli che generano senso. Come ha scritto in suo celebre saggio Jerzy Grotowski: “la paura viene dalla debolezza del senso” (Holyday – the day that is holy, 1970). Allora credo che la performance possa essere un artificio/sacrificio per fornire senso alla vita: un forno di simboli della trasformazione, che contengono psicoenergia per vivere, crescere, liberare, generare.
Nell’intera storia dell’umanità vi sono sempre state persone particolarmente capaci di produrre senso simbolico, intorno a queste persone sono state spesso costituite caste, ordini, poteri. Nel mondo attuale, ordinato dal potere economico e della tecnica, fornire senso all’anima-psiche è un’attività relegata negli ambiti delle arti, delle dispute filosofiche, delle religiosità più o meno ufficiali, delle sedute psicoanalitiche, della buona volontà di qualche insegnante; il senso simbolico è per così dire bandito e svilito, e viene inculcata l’idea che esso in fondo ‘non ha senso’ e comunque ‘non serve quasi a niente’.
Il performer fornitore di senso simbolico esprime allora una specie di rivolta-preghiera la cui strategia non mira all’audience, alla popolarità, alla business art, ma ad attraversare la psiche collettiva con il vascello più autentico di cui dispone: la sua psiche individuale incarnata nella corporeità della sua stessa vita. La psiche arde come fiamma del corpo, la materia brucia di spirito: questo è il forno primordiale che produce quella energia vitale che i greci chiamavano zoe, il flusso trasformativo della vita totale che si differenzia dalla bios – la vita individuale che si esaurisce e si spegne. La zoe non conosce la morte perché attraverso la morte garantisce la prosecuzione della vita, essa è quindi quella energia vitale per cui niente si crea, niente si distrugge, ma tutto si trasforma… La zoe è la vita della tras-per-formance che fornisce simboli, affinché attraverso di essi, si possa scorgere l’evidenza del mistero.
Queste poche righe, a volte un po‘ troppo pretenziose nei contenuti, sono ispirate da qualcosa che mi ha fornito il lavoro e la ricerca artistica di Roberto Rossini. (vedi foto e documentazione Roberto Rossini https://www.ontheground.it/cms/; vedi anche Libellula Dragon Fly Active Imagination di Pier Pietro Brunelli https://www.albedoimagination.com/archivio/albedo-psicoteatro/Libellula12_3.htm)
In alcune occasioni sono stato testimone dei suoi processi tras-per-formativi, del suo modo di lavorare e curare il ‘fuoco blu’ delle performance. Un fuoco che arde nelle notti di luna in riva al mare, nei solitari camini di campagna, nel braciere che resta acceso fino all’alba, nelle fornaci alchemiche del sogno e dell’esperimento. La fase alchemica nigredo-albedo di elementi di visione e di azione mi pare una delle maggiori forme con cui Rossini lavora nelle sue ‘fornaci trasperformative’. I materiali di visione-azione sembrano provenire da diverse miniere esperienziali; una certamente si trova nelle profondità di lunghi anni di ricerca e di lavoro alla comprensione e alla creazione di immagini, di comunicazioni visive, di segni, di segnali, di anti-segnali. Ma altre miniere di visioni-azioni si trovano in più latitudini e longitudini del mondo, dall’Africa al lontano Oriente. Si tratta di psicogeografie che riverberano spesso nell’esperienze simboliche tras-per-formative di Rossini. Ma per certi aspetti più intimi e della memoria, a volte si percepisce la presenza di un genius loci, le cui salde e contorte radici affondano nella terra dove Rossini è nato, la terra dei liguri, così ricca della nostalgia del mondo, dell’avventura introversa e provocatoria, dell’orizzonte del mare irraggiungibile eppure sempre così presente e indeterminabile… Ecco, credo che queste visioni-azioni-esperienze, e tante altre che non so, siano state vissute da Rossini con un forte grado di introversione incubatoria, come un processo di fusione interiore di strane leghe bio-metalliche, con le quali egli forgia performance pregne di fuoco simbolico. Anche quando queste performance appaiono rigorosamente fredde, graficizzate, gestaltiche si tratta di ‘semiosi affettive’, di un ghiaccio che scotta, cioè di processi dinamico-trasformativi e mai congelativi-conservativi. Si espande una sottile aurea emotiva tra eros e pathos… certe volte anche sentimenti di dolore e di rabbia diventano fieri e gentili… come la tigre austera e solitaria che ruggisce nella jungla, non perché è sanguinaria, ma perché è fiera d’amore… In tutto ciò io ho sempre percepito un sentimento introverso di amore, una grande voglia di trasformare il mondo, un rito-ribelle che non può essere semplicemente detto, scritto, disegnato, teatralizzato, ma che deve essere vissuto… ecco sì, questa è forse l’esperienza più intima e autentica che maggiormente ho ricevuto quale forza simbolico-immaginale dalle performance di Rossini. Non si tratta di esprimere un mero sentimentalismo compiacente, ma di testimoniare come posso la potenzialità psichica di una particolare esperienza umana e conoscitiva attraverso l’arte. Dalle fornaci della trasformazione-performazione di Rossini ho percepito lo scatenarsi di un prometeico fuoco liberatore, che arde per fornire alla vita un senso simbolico, un senso che oggi, sulla terra – on the ground – è più che mai necessario e vitale.
Foto e documentazione Roberto Rossini:
https://www.albedo-psicoteatro.com/
Pier Pietro Brunelli
Psicologo, Dottore in Dams ha pubblicato i seguenti saggi e articoli sul Parateatro e la Performance:
(1988), Saggio nel dramma per Rena Mirecka (1994, 2°ed.)
Associazioni Culturali Albedo, Prema Sãyi, Helios
(Milano, Via G. Alessi 8 – tel./fax 02/8376990).
(1996), “Fare anima, oltre lo spettacolo”, in AA.VV.
Oltre lo spettacolo. Tradizione, Cultura attiva. Figure professionali.
Cagliari, Studio Drama – Comune e Provincia di Cagliari.
ROBERTO ROSSINI
La realtà contemporanea tende sempre più all’inorganico: il dominio della materia ha prodotto un mondo popolato di ‘cose’, un mondo in cui si sovrappongono organico e inorganico, naturale e artificiale.
I suoni, gli spazi, gli oggetti, le parole e anche le azioni sono affrancati dal loro rapporto con lo spirito e con la vita diventando a loro volta cose che sentono e che sono sentite.
«…Il soggetto in sé è definitivamente morto. È la sensibilità che, relativamente al soggetto, perviene in primo piano…» Klossowski, P. (1984)
In questo ‘sistema’ il ruolo dell’essere umano è quello di ‘cosa che sente’, ed è qualcosa di differente da ‘una cosa che pensa’ o ‘una cosa che si muove’, la mente e la macchina.
Questa condizione è implicita e determinante nell’evoluzione della performance dagli anni ‘60 ad oggi, prima attraverso la rottura della distinzione tra scena e realtà, poi nell’esposizione di un evento hic et nunc e infine, con la body art e il più recente e tecnologico post-human, nel superamento dei propri limiti e di se stessi, attraverso la percezione del corpo come ‘cosa’, parte di un sistema di segni complesso.
In un mondo in cui siamo tutti performer più o meno abili, e in cui i comportamenti quotidiani sono intesi come ‘rappresentazione’ mentre gli eventi teatrali si modellano sulla vita reale, il performer necessita di una performance eccezionale e ‘fuori dal comune’.
Proprio in questi ultimi anni, che hanno visto anche nell’arte l’avvento del virtuale e l’ostracismo verso il fisico, la performance ha spostato l’attenzione su quei rituali che sottopongono il corpo a prove che si potrebbero, semplificando, definire iniziatiche.
Tutta la storia dell’arte è attraversata dall’iconografia dell’estremo, presente già nelle raffigurazioni parietali del neolitico, o sulle ceramiche classiche, nelle immagini mitologiche, nei volti sofferenti dei santi e dei Cristi della storia dell’arte: queste figure mitiche, prive di un ‘comune senso del dolore’, sono rappresentate come ebbre di sofferenza estatica, in cui il piacere della vicinanza con il divino è direttamente proporzionale al tormento.
In definitiva il corpo – come realtà materiale, nuda o coperta, ‘pesante’ o ‘agile’, e ancor più nella sua capacità di esprimere il sociale nella modernità – è stato colto sotto l’aspetto dei riti che lo governano, sottolineando così il suo essere il centro dell’essere sociale.
Vetrina della persona, incorpora l’ordine sociale attraverso le norme che deve rispettare, come attraverso i suoi riti di inserimento nell’’apparenza’ della modernità; tanti fenomeni che influiscono sull’insieme della vita sociale.
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Cronache dall’incompiuto
Roberto Rossini
2005
« La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome. »
Jean Dubuffet
Quando mi è stata offerta l’opportunità di formulare queste brevi note, in margine alla mostra Cronache dall’incompiuto, il pensiero non ha potuto che ritornare all’incontro personale – una performance realizzata più di dieci anni fa – con l’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, importante esperienza di arte-terapia, nata nell’ex Ospedale Psichiatrico di Genova Quarto grazie soprattutto alla dedizione dell’artista Claudio Costa.
In quell’occasione (dove nell’occasione è insita anche la sua impermanenza: l’occasus è il tramonto, il perire, il morire senza alcuna presunzione…), a contatto con i lavori e le personalità presenti nell’Istituto, ho provato l’emozione che può dare un’arte – per definizione, ‘sistema rappresentativo’ – che comunica l’incomunicabile.
Anche le esperienze espressive di questa mostra rappresentano, con una forza ‘naturale’, la solitudine umana, il vuoto esistenziale, le problematiche affettive – in ultima analisi l’assenza – ma anche la gioia del creare, la coscienza dell’esperienza, la padronanza delle tecniche: proprio come l’arte contemporanea, nel suo Spirito del Tempo.
Per questo ho sentito necessario evidenziare, nella sintetica storia dell’arte ‘irregolare’ delineata nelle pagine seguenti, i collegamenti con l’’arte ufficiale’ per sottolineare, piuttosto che la loro dicotomia, la storia comune e la contiguità di tematiche, forme espressive, linguaggi.
Non ho voluto stabilire dei criteri estetici pre-formati attraverso cui osservare le opere presentate, nelle quali ha valore l’esperienza in quanto tale; se nelle tradizioni post-rinascimentali dell’arte è il prodotto ad essere considerato, come se potesse essere sottratto al tempo, non così in questi lavori-esperienza, dove il fare è più importante del produrre.
Ho ricercato, piuttosto, gli archetipi a cui spontaneamente i ragazzi attingono, mettendo al centro dell’osservazione i condotti principali di un’energia che si presenta di intensità variabile, dal flusso al cortocircuito, sfrondata da valutazioni tecniche o pregiudizi artistici.
Sono stato aiutato, in questo lavoro di sottrazione, dal non avere volutamente preso in esame altro che le opere, ignorando contesti e storie personali; occorre altresì precisare che, dal punto di vista dell’esperienza terapeutica, esistono approcci differenti, determinati dalle patologie coinvolte.
Le disabilità che sono all’origine dei lavori presentati non possono essere considerate, in questo contesto essenzialmente percettivo, elementi di differenziazione; differenziazione che diventa necessità imprescindibile nella pratica di arte-terapia degli operatori responsabili del laboratorio.
Un’ultima osservazione: consultando i manuali di storia dell’arte italiani si può verificare come, a differenza di altri Paesi europei nei cui libri già da tempo le opere di Wölfli, di Aloïse, di Lange e di altri artisti ‘irregolari’ sono ufficialmente rappresentate, si preferisca ignorare la storia, e il presente, di tutte le forme espressive considerate fuori dal mercato.
Questo testo vuole essere quindi un piccolo contributo per pagare il grande debito che l’arte moderna e contemporanea ha con le radici espressive dell’’essere umano’: l’arte dei primitivi, l’arte infantile, l’arte dei malati mentali e degli esclusi, quella che è stata definita ‘arte irregolare’.
La sparizione dell’arte
Nella situazione artistica contemporanea, dove tutto è possibile e tutto – o nulla, a seconda dei punti di vista – continuamente si trasforma, non si é più aiutati da una razionalità euclidea per determinare e definire il campo d’azione dell’evento estetico: ci si muove necessariamente attraverso ‘raccolte’ di frammenti per individuare, all’interno di questi, il dato, l’essenza dei linguaggi artistici proposti e il loro divenire.
Lo stesso concetto di ‘contesto’, che era servito a tutta l’arte precedente il Novecento a definire ciò che era arte e ciò che non lo era – come la distinzione tra arti maggiori e arti minori – riceve, nel secolo appena passato, la critica radicale delle Avanguardie storiche, che portano a compimento un vero atto sacrificale attraverso la massima laicizzazione del fare artistico, l’oggettivazione del ‘prodotto’ arte e l’esaltazione del ‘concetto’.
Paradossalmente questo processo di superamento dell’arte o di ‘morte dell’arte’, come l’ha definita Nietsche, non ha fatto che aumentare la coscienza del valore spirituale dell’arte stessa.
Sul piano della de-strutturazione del fare artistico esperienze come i ready-made di Marcel Duchamp introducono l’aspetto aleatorio come elemento determinante dell’opera d’arte, in cui, come precisa Lebel: «La parte dell’inconscio è più importante che in tutti gli altri lavori ».
L’evento artistico si sviluppa quindi attraverso una libera associazione di gesti, rompendo il binomio causa-effetto, promuovendo nel corpo sociale l’irruzione di gesti non economici e a-funzionali, disinteressati, con l’unica finalità di portare alla superficie zone rimosse, appartenenti all’inconscio.
È nella consapevolezza di questa condizione ‘originaria’ che l’arte del Novecento e l’’arte irregolare’ intessono il loro dialogo proficuo e sviluppano corrispondenze sul piano del comune territorio dello Spirito del Tempo.
L’uomo del Novecento è infatti l’uomo della crisi esistenziale e della frantumazione dell’Io, fenomeno che si ravvisa, in campo espressivo, nelle opzioni tematiche e nelle modalità di rappresentazione che mostrano parallelismi sorprendenti tra i due campi, fino a giungere a un vero e proprio collasso delle due dimensioni in un territorio condiviso, libero, almeno a priori, da pregiudizi.
La situazione odierna è la naturale prosecuzione di questo quadro, determinata da una parte dall’ingerenza dell’economia in tutte le forme del reale, dall’altra dall’impossibilità del potere di controllare adeguatamente tutte le catene biologiche dell’esistente; anche la mutazione delle dinamiche proprie della realtà fa sì che risultino inadeguati i metodi di indagine meccanicistici ed analogici fino ad ora utilizzati.
Ne consegue, nel fare arte, che il ‘progettare’ (la capacità di costruire il futuro) appare oggi una strategia perdente o desueta e che tutto quello che è avvenuto negli ultimi cent’anni è rimosso, negato, come mai avvenuto; la rimozione del passato e l’incapacità di ‘prevedere’ significano che una parte della nostra vita è perduto.
I recenti cambiamenti tecnologici, economici e politici hanno contribuito alla marginalizzazione e alla frammentazione di strati sociali sempre più ampi, non solo da un punto di vista sociologico, ma piuttosto di tutto ciò che viene ‘espulso’ in quanto causa di paradossi e contraddizioni: contraddizioni che pur essendo perfettamente razionali non offrono altre soluzioni se non dei cambiamenti radicali.
È in questo tipo di marginalità che si colloca la produzione artistica di chi conduce una vita spesso drammatica, sofferente, che noi non vorremmo vivere.
Le Avanguardie artistiche e la psicoterapia
Nel 1924, André Breton definiva così, nel suo Manifesto, il Surrealismo: « Automatismo tipico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmete, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale », palesando così l’interesse degli artisti d’avanguardia per quelle forme espressive definite come ‘arte irregolare’ e la loro ammirazione (peraltro non ricambiata) a Sigmund Freud.
L’attrazione reciproca tra arte, psicoanalisi e psichiatria vede soprattutto i Surrealisti – con Breton, Max Ernst, Paul Eluard, René Magritte – interessarsi alle manifestazioni spontanee dei malati mentali (ma non solo, anche dei popoli cosiddetti primitivi e delle espressioni artistiche infantili), leggendo, nelle loro modalità di dipingere e raffigurare la realtà, una vicinanza ai concetti del dirompente Movimento Surrealista, teso a ribaltare le categorie logiche convenzionali, i dogmi della critica razionalista e a esaltare l’entusiasmo per l’inconscio, il sogno, il bizzarro come elementi fondanti per la nuova rivoluzione sociale.
Questo ‘amore a prima vista’ si presenterà ricco di contraddizioni dall’una e dall’altra parte, generando pregiudizi e idealizzazioni, contrasti e stimoli reciproci, ma anche una vasta casistica di esperienze in cui si è raggiunto l’obiettivo più alto di restituire dignità all’umano.
Il panorama composito dell’’arte psicopatologica’ – sia quella degli artisti divenuti folli o quella dei folli divenuti artisti, sia quella spontanea creata di nascosto nelle case di cura o quella incoraggiata nei laboratori di arte-terapia – sembra ancora chiedere il chiarimento di alcuni stereotipi e pregiudizi da cui è stata afflitta fin dalla sua prima evidenza, rappresentata da una personalità come quella di Vincent van Gogh.
Van Gogh, ‘icona delle icone’ dell’arte dell’attuale società mercantile, è la dimostrazione di quanto la follia e la presunta menomazione psichica siano state lette, nel senso comune, come fonte della creatività o, addirittura, del genio. In realtà, la produzione artistica ‘alienata’ appare molto lontana dal romantico binomio genio-follia.
La risposta definitiva a queste contraddizioni verrà proprio dall’interno, attraverso la penna avvelenata dello ‘psicotico’ per eccellenza Antonin Artaud, che dedicherà all’artista-uomo Van Gogh uno dei suoi più appassionati, deliranti ed autobiografici testi.
Artaud, personalmente convinto di essere una vittima della società, e dei medici in particolare, vedrà nel tragico destino di Van Gogh il dramma stesso di una persona fragile e creativa in una società che tende ad escludere tutte le categorie dei ‘diversi’, dei ‘marginali’, tanto più se detentori di una sensibilità come quella dell’artista olandese; per dirlo con le parole di Artaud: « Perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insopportabili verità ».
Il successivo affermarsi dell’’arte irregolare’ ha in parte liberato la storia dell’arte (come desideravano, almeno nelle loro intenzioni, i Surrealisti) dalla dicotomia tra arte colta – la crociana “Arte con la A maiuscola” – e arte non-colta. Il tratto del pittore è diventato metonimia di una visione del mondo, testimonianza di una visione ‘altra’, segno intangibile di una condizione perduta e irripetibile.
Se, per i canoni dell’estetica comunemente accettata, non tutta la produzione irregolare può essere definita ‘artistica’, il valore incontrovertibile di queste opere è proprio nel loro essere testimonianza di un’esistenza unica, vera e non riproducibile .
Secondo lo stesso principio di unicità di ogni esistenza per cui solo Van Gogh poteva dipingere Campo di grano con corvi riuscendo, per usare le parole di Artaud, ad essere « più vero della natura stessa », solo il segno di quel pittore, malato o sano che sia, può diventare rappresentativo della sua particolare capacità – o incapacità – cognitiva ed esecutiva.
Non dimentichiamo che la menomazione o il rifugiarsi nella psicosi rappresenta spesso, per alcuni individui, l’unica via di esistenza possibile; ci accorgiamo così che è l’umano – in tutta la sua complessità ed interezza – a comparire dirompente nei loro quadri, nei loro disegni, nei quaderni riempiti di schizzi, nella costruzione dei loro oggetti.
Queste opere sono la testimonianza della vita come “assenza di protezione”, una dimensione che si infrange contro le definizioni rigide e prestrutturate per lasciare spazio al manifestarsi di esistenze che – seppur ‘altre’ – riescono tuttavia ad esistere e, in questo ex-sistere, essere fuori e dunque mostrar-si, hanno un’unica via per farlo: la malattia, l’alienazione, l’emarginazione e, tuttavia, ancora, la vita.
Museificazione e mercato dell’arte irregolare
Le prime esperienze di conservazione di tracce o manufatti prodotti da internati in case di cura o di detenzione risalgono alla fine del XIX secolo, nel contesto del positivismo scientifico dell’epoca, spesso acquisite come documentazioni con cui sostenere le diagnosi, giustificare le contenzioni, gli internamenti e il grado di responsabilità degli ‘imputati’. Questi allegati delle cartelle cliniche, unitamente alle collezioni che all’interno degli istituti ospedalieri avevano la funzione di strumenti didattici (come quella del discusso antropologo criminale Cesare Lombroso), costituirono la base della oramai famosa Collezione Prinzhorn.
La genesi e la fama di questa collezione straordinaria hanno la loro ragione nel concetto di ‘essenza originaria’ e della sua trasformazione in mito; le avanguardie artistiche dei primi del ‘900, in particolare Espressionismo e Surrealismo, avevano posto al centro delle loro ricerche l’’autenticità’ del processo artistico, attraverso l’attenzione all’arte ‘dilettantesca’, a quella dei ‘folli’ e a ‘gli albori dell’arte’, per dirla con le parole di Paul Klee, in una visione estetica coerentemente idealistica.
Hans Prinzhorn (1886-1933), spirito libero, sperimentatore, ma soprattutto medico e storico dell’arte al tempo stesso, fece propri questi principi modellando su di essi la sua collezione di opere di malati di mente.
Questa attività, incarico ufficiale presso l’istituto ospedaliero di Heidelberg, si svolse sempre considerando il doppio binario consentitogli: da una parte una valutazione estetica del prodotto artistico, al fine di « fare chiarezza nel caos dell’arte contemporanea » per dirla con le parole di Prinzhorn, dall’altra con l’intento ‘scientifico’ di catalogare e dare norma ad aspetti patologici già preventivamente catalogati nell’ambito della schizofrenia.
Questi assunti a priori gli faranno sottacere elementi di indagine importanti come, ad esempio, il fatto che molti casi di malattia mentale presi in esame fossero conseguenza stessa del ricovero istituzionalizzato e che molti artisti presenti nella collezione avessero esperienze artistiche acquisite prima o durante la contenzione.
Bisogna aggiungere che Prinzhorn non aveva una grande esperienza clinica, nè una precedente conoscenza su cui basarsi; tentava quindi di indagare questo diverso ‘senso del mondo’ attraverso la visita ai pazienti o, pratica diffusa nell’ambiente psichiatrico dell’epoca, con l’assunzione di mescalina in via sperimentale, ritenendone gli effetti la « medesima percezione degli schizofrenici ». Nel 1922 pubblicò, presso l’editore Springer di Berlino, Bildnerei der Geisteskranken. Ein Beitrag zur Psycologie und Psycopatologie der Gestaltung (trad. it. L’arte dei folli. L’attività artistica dei malati di mente), libro che ebbe molto successo, soprattutto nell’ambiente artistico e che influenzò notevolmente vasti settori dell’arte contemporanea.
Resta da dire, in queste brevi note, che la prima manifestazione ufficiale che accomunerà sullo stesso livello le opere degli artisti delle avanguardie e le produzioni raccolte in campo psichiatrico sarà la mostra Entartete Kunst (Arte degenerata) del 1937, promossa dal Ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels.
L’obiettivo di questa infamante operazione era di convincere il pubblico della natura patologica dell’arte “giudaico-bolscevica”, attraverso l’accostamento di opere di Kirchner, Nolde, Kokoschka, Chagall, Kandinsky, Klee e altri a opere provenienti proprio dalla Collezione del dottor Prinzhorn, sottolineando in tal modo l’ambiguità di fondo di questa esperienza, d’altronde già conclusa prima della morte di Prinzhorn, nel 1933.
Nell’immediato dopoguerra, con Jean Dubuffet e l’apertura del Musée de l’Art Brut a Losanna, l’’arte irregolare’ entra ufficialmente nei manuali come produzione artistica vera e propria.
La Collezione dell’Art Brut prende il via nel 1945 dalla ricerca, fatta dal pittore e scultore francese Jean Dubuffet, di opere realizzate al di fuori dei circuiti ufficiali e delle tendenze di moda da artisti « indenni da cultura, nei quali dunque il mimetismo, contrariamente a ciò che accade presso gli intellettuali, ha poco o per nulla parte ».
Con il termine di art brut si identifica quindi l’espressione artistica praticata da coloro che, per una ragione o per un’altra, sono sfuggiti al condizionamento culturale e al conformismo sociale. Individui solitari, disadattati, ricoverati di ospedali psichiatrici, detenuti, emarginati di tutti i tipi che hanno prodotto per se stessi, al di fuori della tradizione e delle mode, al di fuori del sistema delle arti, delle scuole, gallerie, musei, opere altamente originali per contenuti e tecniche.
L’art brut è intesa inizialmente come ogni genere di manifestazione spontanea e priva di intenzioni culturali, ma nel corso del tempo si definisce nell’interesse per l’arte marginale dei reclusi, degli alienati, dei clandestini, dei fous; non si presenta quindi come un movimento pittorico in senso stretto, ma come una definizione ampia che comprende opere di artisti, a volte inconsapevoli, colpiti da gravi disturbi psichici ai quali la pittura ha consegnato uno straordinario veicolo di comunicazione.
La psicosi o, a volte, l’handicap psichico vengono definiti da larga parte della psichiatria essenzialmente come una ‘crisi del linguaggio’. Se si pensa all’arte come a uno dei più alti sistemi di espressione, l’’arte irregolare’ appare quindi come un’oasi dove – nel deserto della comunicazione autistica e nella condanna all’impossibilità di parlare – la comunicazione rivela il suo potenziale catartico.
É necessario fare un distinguo tra l’art brut e quella che viene definita arte naïf perché quest’ultima, anche se realizzata ‘ingenuamente’, si inserisce nei canali della grande pittura di stile accademico ed è perfettamente integrata nelle regole di mercato, mentre chi pratica l’art brut inventa proprie tecniche, utilizza materiali insoliti, crea a proprio uso e consumo come in una sorta di teatro privato e senza preoccuparsi del giudizio altrui.
Sosteneva Jean Dubuffet : « L’Art Brut ha in sé tutti gli elementi che richiede un’opera d’arte: una bruciante tensione mentale, invenzione senza freni, libertà totale. Pazzi? Certamente. Potreste concepire un’arte che non fosse un poco folle? Nietzsche diceva: Noi vogliamo dell’arte che danzi ».
Grazie anche all’art brut, la storia dell’arte si è liberata dai vincoli dell’estetica tradizionale, della sterile opposizione tra arte colta, ‘ufficiale’, e arte non-colta, riuscendo a formulare un nuovo statuto disciplinare in cui tutte le pratiche artistiche fanno parte della medesima storia. D’altro canto anche la psichiatria ha rinunciato, in parte, a catalogare e incasellare l’espressione dell’umano, per lasciare spazio anche a margini di incomprensibilità e di espressione pura.
L’archetipo incompiuto
Il pregiudizio, lo stereotipo, l’erigere barriere – anche fisiche – tra follia e normalità, tra arte ‘riconosciuta’ e arte ‘alienata’, ma soprattutto l’idealizzazione di quelle esperienze tragiche e distruttive che sono – comunque – la psicosi e l’handicap hanno dimostrato, come abbiamo visto, quanto sia faticoso trasformare realmente queste esperienze in ‘segno umano’.
Le opere raccolte nella mostra Cronache dall’incompiuto sono la prova di come sia importante non tanto ‘valutare’, quanto imparare ad ‘ascoltare’, a ‘riorganizzare’ e a ‘rispondere’ alle immagini-esperienza prodotte.
Nella psicologia, il potere terapeutico delle immagini non risiede in un effetto letterale (dipingo il problema che mi affligge) e alla sua interpretazione, ma al dialogo che si instaura con esse.
Occorre rivolgere attenzione a queste immagini, perchè dietro c’è sempre una storia, meno palese di quella conosciuta, più ricca di informazioni della diagnosi clinica: esse parlano il linguaggio dell’anima.
È nella duplice funzione percettiva ed espressiva di queste opere che possiamo ritrovare le tracce del percorso creativo che, partendo dalla gestualità, trasferisce sulla carta l’esperienza del movimento, la padronanza del linguaggio, e reinventa sempre le stesse configurazioni: il cerchio primordiale, i diagrammi, gli aggregati, i mandala, le figure umane.
Attraverso il gesto, che lascia traccia, si produce la testimonianza di una visione ‘altra’, il punto di incontro di una condizione perduta e irripetibile.
Il filosofo Agamben ne dà questa esauriente definizione: « Gesto è il nome di questo punto di incrocio della vita e dell’arte, dell’atto e della potenza, del generale e del particolare, del testo e dell’esecuzione. Esso è un pezzo di vita sottratta al contesto della biografia individuale e un pezzo di arte sottratta alla neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né valore di scambio, né esperienza biografica, né evento impersonale, il gesto è il rovescio della merce, che lascia precipitare nella situazione i ‘cristalli di questa comune sostanza sociale’ ».
Il valore performativo di questi lavori risiede proprio nel vedere, attraverso di essi e in trasparenza, il corpo come matrice di segno, materia espressiva, ‘ricettacolo dell’anima’: l’origine della pittura e dell’azione, esso stesso materiale, strumento linguistico, mezzo per la produzione artistica.
Questa dimensione, che trascende il dato individuale per produrre un linguaggio archetipico, è il terreno ottimale per costruire, attraverso il gesto – e il segno che il gesto produce- la dimensione ontologica dell’esperienza, come imprescindibile condizione di possibilità di ogni esistenza: sia essa ‘normale’ o ‘anormale’.
Così queste opere non sono più da considerare oggetti esterni, che si guardano dal di fuori, da rappresentare ed interpretare, non più un semplice dato della realtà da narrare o riprodurre, ma campo privilegiato di indagine per l’approfondimento del problema della costruzione della soggettività.
Sono Cronache dall’incompiuto proprio perche’ incompiuta e’ la possibilita’ di affermazione da parte dei ragazzi attraverso la continuita’ del loro lavoro, rispetto alla compiutezza dell’artista dotato della possibilita’ di sviluppare la propria ricerca e di estenderla nel mondo delle relazioni possibili.
Incompiuta non e’ l’elaborazione dell’archetipo da parte del ragazzo che dipinge o elabora un manufatto ma incompiuto è il riconoscimento e la consapevolezza ‘ufficiale’ che dal mondo degli archetipi emergono delle immagini universali, a disposizione di chiunque sia interessato a coglierle.
Incompiuta e’ quindi da parte nostra, da parte della nostra ‘normalità’, la presa di coscienza e la sensazione di meraviglia per l’esistenza di questo mondo, le cui cronache sono generalmente delegate e riconosciute solo all’ufficialita’ dell’arte; per comprenderlo è necessario mettere tra parentesi ogni aspetto della vita che noi diamo per consolidato e rimanere ricettivi alla meraviglia.
Di fronte all’immagine, credo sia necessario mantenere il più possibile aperto il campo d’osservazione, rispettando il linguaggio visivo delle forme e dei colori visti nella loro prospettiva fenomenologica, per saper quindi sospendere il giudizio.
L’immagine prodotta deve essere protetta da inopportune incursioni interpretative; non deve pretendere di “normalizzare” l’arte, né di fare dell’oggetto estetico prodotto nel lavoro terapeutico una sorta di arte minore, chiusa nei confini della psicopatologia. Kandinski diceva: « Un quadro è ben disegnato se vive con la piena vita interiore… l’artista è e deve lavorare con le forme, nel modo in cui gli è necessario per i suoi obiettivi. Chiunque sia, oltre la salute mentale, è libero di scegliere tali forme, può inventarne di nuove, conosciute solo da lui. Solo le vibrazioni spirituali del pubblico gli diranno se è vera arte o no ».
Lo dimostrano alcune tematiche presenti nelle opere esposte – come la frammentazione dell’io, il senso di spaesamento e di estraneità dal mondo – che si traducono, all’interno della rappresentazione figurativa del corpo umano, nella deformazione del soggetto, fagocitato dal corpo o annullato nella materia, negazione/affermazione dell’identità.
Le grandi figure verticali, totemiche e fortemente espressionistiche, premono per uscire dal formato, avanzano verso lo spettatore, danzano quasi minacciose. Lo vediamo concretamente, nell’arte contemporanea, anche in artisti come Arnulf Rainer – esponente dell’Azionismo viennese con Nitsch, Muehl, Brus e Schwarzkogler – nei lavori del quale la figura assume su di sé la ferita della carne, andando al di là della finzione e della rappresentazione artistica per agire sulla realtà stessa, sul corpo stesso.
Di diverso indirizzo appaiono i lavori dove la percezione frantumata, frammentaria, della realtà produce invece un segno polverizzato, che rimanda ad una dimensione onirica, pulsionale della memoria – quasi psichedelica – tesa alla ricostruzione di una mappa identitaria e di ‘ri-conoscimento’ dell’ambiente, oppure alla destrutturazione dello spazio e, quindi, del tempo.
Questo operare richiama le tecniche dell’Action painting (Pittura d’azione), a volte chiamata astrazione gestuale, uno stile di pittura nella quale il colore viene fatto sgocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulle tele, spesso ‘danzandoci’ intorno o facendolo semplicemente cadere, lasciando che si esprima la parte inconscia dell’artista. Il pittore Jackson Pollok, esponente di spicco di questa tendenza nata tra gli anni ’40 e ’50, dipingeva facendo colare dall’alto vernici e colori su supporti di grandi dimensioni, creando textures molto particolari. Era l’attività spontanea ad essere considerata l’’azione del dipingere’.
Le brillanti esaltazioni cromatiche di alcuni lavori xilografici in mostra, peraltro eseguiti con perizia e senso della composizione, comunicano il senso di vuoto e di solitudine, evidente nelle ‘ferite’ inferte alla materia, simbolicamente aggredita. Non a caso questa tecnica, e altre tecniche similari, furono rivalutate nel xx secolo dagli espressionisti del Künstlergruppe Brücke e da Edward Munch.
La stessa materia regredisce, in alcuni lavori qui presentati, fino a una turbolenza originaria che rappresenta la tangibile problematicità di una cosmogonia umana: materia che è al contempo corpo e anima, tessuto umano e sentimento d’essere, materia che diventa corpo, tessuto organico in senso stretto. Possono essere considerate forme espressive con le stesse modalità che caratterizzano le ricerche del nostro Pinot Gallizio, pittore-alchimista-situazionista, o del Gruppo Cobra – acrostico dai nomi delle città di Copenhagen, Bruxelles, Amsterdam dalle quali provenivano gli artisti (Corneille, Appel, Alechinsky, Jorn) che nel 1949 si fusero in gruppo a Parigi – che perseguivano uno stile violentemente espressionista, di forte gestualità e impatto materico autosignificante. Il gruppo concepiva l´arte come una manifestazione che si pone prima della lingua e prima della tecnica.
Anche questa estrema libertà espressiva, mediata da una evidente attenzione al mondo della comunicazione, spesso si esprime con un linguaggio nativo, selvaggio, generando nuove calligrafie pittoriche. L’opera diventa così un diagramma di segni-scritture, di graffi di rabbia che parlano di un difficile rapporto col mondo esterno.
Del resto in tutti i graffitisti c’è l’incontenibile bisogno di comunicare le proprie angosce invadendo gli spazi pubblici, come in Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, o nell’esperienza del gruppo Wurmkos, un progetto la cui peculiarità consiste nell’aver creato un’opera d’arte permanente in uno spazio inusuale: una comunità psichiatrica in cui vivono anche alcuni degli autori, un gruppo aperto di artisti, disagiati e non, che lavora dal 1987. Questa è una delle (poche) esperienze italiane che riproducono solo in parte quanto avviene in molti paesi europei.
Già lo stesso Basaglia si era occupato attivamente della prospettiva critica della ‘psicopatologia dell’espressione’, prefigurando una lettura terapeutica della produzione artistica. Ancora oggi l’arte terapia, rimasta di fatto estranea alla nostra tradizione, nel nostro paese è una disciplina in via di formazione e resta una pratica, nel bene e nel male, priva di una definizione tecnica e teorica.
L’Ospedale Fatebenefratelli di San Colombano, il San Giacomo di Verona, l’atelier La Tinaia – un centro nato all’interno dell’Ospedale psichiatrico fiorentino di San Salvi – l’Istituto per le materie e le forme inconsapevoli all’Ospedale psichiatrico di Genova Quarto, sono tra le realtà che si propongono, o si sono proposte, come esempi di comunità terapeutiche in cui l’arte è praticata liberamente e quotidianamente. Alcune di queste esperienze hanno visto crescere, al proprio interno, un numero rilevante di pazienti di grande statura artistica, le cui opere sono state accolte in musei e istituzioni internazionali, a partire proprio dalla Collection de l’Art Brut di Losanna.
Al di là delle loro diverse forme, i lavori qui presentati recuperano e testimoniano l’umanità del rapporto che deve intercorrere tra l’individuo e le forme di espressione artistica. Quando la malattia separa l’uomo dall’universo, dalla natura, dal corpo, la pratica delle arti aiuta a riallacciare tale rapporto. Questo vale tanto per il malato come per l’artista terapeuta. Non si possono far condividere a lungo i benefici dell’arte senza riceverli in prima persona, senza praticarli, se no l’arte diventa una semplice tecnica e non una nuova fonte di vita.
In un saggio su Oreste Fernando Nannetti, che ha impresso la sua straordinaria carica artistica ai muri dell’ospedale psichiatrico di Volterra, si legge: « quando un’opera è così piena di significato e ascende alla dimensione dell’arte, non c’è più bisogno di critici, basta essere uomini e guardare. »