Articolo tratto dall’ intervento di Pier Pietro Brunelli al simposio “La reinvenzione del corpo”
a cura del Club PSOMEGA. Circolo De Amicis, Milano 3 dicembre 1998.
L’ articolo che ho pubblicato nel volume di Psomega, che qui oggi presentiamo, parla di alcuni aspetti del Parateatro del maestro polacco Jerzy Grotowski. L’ articolo si intitola l’ Arte di non recitare… Non recitare perché il parateatro non è una forma di spettacolo, ma un’attivita gruppale di carattere espressivo per consentire un’ esperienza formativa a livello psicofisico, creativo e spirituale. Dunque nel Parateatro si ricerca un’esperienza di decondizionamento dalla maschera sociale e dai ruoli, dagli schemi percettivi e interpretativi affinché il soggetto possa avvicinarsi a se stesso, alla sua autenticità; in tal senso si cerca di imparare a ‘non recitare’ poiché la vita quotidiana ci conduce molto spesso ad una situazione di recitazione più o meno inconsapevole (si pensi agli studi di Goffman in tal senso). Ma per questo decondizionamento, occorrono tecniche e insegnamenti, così, Grotowski e Barba, intorno agli ’70 hanno proposto un campo di esperienze extra-teatrale nel quale fosse possibile sperimentare le ‘tecniche del corpo’ (come le ha definite l’ antropologo M. Mauss): si tratta di tecniche psicocorporee riferite alle diverse culture d’ origine. Queste tecniche servivano a rendere efficiente lo strumento corporeo, il più primordiale tra gli strumenti, per diverse attività, da quelle più quotidiane, come il lavoro, l’ accudimento della prole, alle attività extraquotidiane, come la guerra, la guarigione, la propiziazione, e quindi il rito. L’ investigazione attiva di queste tecniche psicocorporee extraquotidiane ha determinato il campo dell’ antropologia teatrale, al fine di studiare in senso teorico-pratico “il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’ uomo in una situazione di rappresentazione” (Barba).
Da molti anni mi occupo attivamente di queste ricerche, ed un punto fondamentale in senso teorico, ma anche pratico ed esperienziale, si incentra nel mind-body problem: la relazione mente corpo. Allora, per esprimere in poche battute quali siano i discorsi e le azioni nell’ ambito dell’ antropologia teatrale, per quanto attiene al mind-body problem, vi propongo tre brevi riflessioni argomentative: la prima è di natura aneddotica, la seconda di natura scientifica e la terza di natura mitologica. Non ho tempo qui per provvedere alle liaison, cioè per argomentare con precisione le correlazioni e le ipotesi che si possono articolare intorno a questi tre ‘fatterelli’. Lascio dunque a voi questa riflessione e per quanto mi riguarda la rinvio ad un’ altra sede, purché sia dello stesso livello di gradevolezza e di sapienza di quella in cui ci troviamo oggi.
Veniamo dunque all’ aneddoto. Si tratta di un aneddoto raccontato da Grotowski. Egli si trovava ad assistere ad uno spettacolo di due danzatori dervisci: questi erano padre e figlio. Dapprima danzò il figlio, e la performance fu ineccepibile. Poi danzò il padre, la stessa danza, e anche questa volta la performance fu eccezionale. Ma, nell’ ascoltare i commenti di due spettatori, all’ orecchio di Grotowski giunsero le seguenti battute: ” Sia il figlio e sia il padre sono stati bravissimi” disse uno dei due spettatori, e l’ altro rispose “Eh già! Però il padre non aveva aloni di sudore sotto le ascelle”.
Cosa può voler dire questo particolare apparentemente così banale? Intanto, escludiamo che la traspirazione del figlio sia dovuta ad una prerogativa biologca delle sue ghiandole sudorifere, e pertanto è più lecito pensare che il figlio fosse più emozionato del padre; infatti come sappiamo la sudorazione, che si correla al riflesso psicogalvanico della pelle scientificamente misurabile, è indice, assieme ad atri indici somatici e fisiologici (espressione facciale e posturale, battito cardiaco, dilatazione e o restringimento pupillare, pressione arteriosa, ecc. ) di uno stato emotivo che si correla a determinati comportamenti ed espressioni. Diciamo allora che il padre si trovava in uno stato emotivo più equilibrato rispetto allo stato del figlio. Probabilmente perché il padre aveva acquisito così bene la struttura della danza da potersi permettere una concentrazione totale della mente sull’ azione che stava compiendo in quel momento. Se per il figlio esisteva ancora la preoccupazione del pubblico, il rammemorarsi della tecnica, il recitare una performance, per il padre esisteva soltanto l’azione della danza in quel momento, sicché il suo corpo era ‘trasparente’. Era ‘trasparente’ nel senso di costituire il minimo ostacolo, o un ostacolo impercettibile tra il soggetto e la sua azione fisica, tra la mente e l’ atto. Con questa prospettiva Grotowski attualmente a Pontedera sperimenta le tecniche dell’ azione fisica, ovvero la possibilità di esperire una coincidenza tra mente e corpo nell’ azione performativa.
Lasciamo per ora questo aneddotto e le molteplici riflessioni e informazioni che ad esso potrebbero aggiungersi e passiamo al ‘fatto’ di natura scientifica, alfine di meglio specificare il dibattito intorno al mind-body problem. In termini estremamente semplificati vi riporto una delle più recenti teorie dell’ emozione elaborata nell’ ambito di una nascente branca delle neuroscienze: la ‘neuropsicologia affettiva’, la quale si distingue dalla ‘neuropsicologia cognitiva’ perché si occupa non tanto degli aspetti computazionali della mente, quanto delle emozioni e dei sentimenti, e quindi delle sostanze endogene, in particolare i neuropeptidi, che sono correlate fisiologicamente con tali emozioni e sentimenti. La teoria di cui vi accenno è conosciuta con il nome di teoria “vascolare della efferenza emotiva”. Essa deriva da recenti considerazioni sull’ anatomia della carotide e della giugolare che consentono una sorta di biforcazione del sistema vascolare, per cui un ramo va ad irrorare di sangue il cervello, un altro ramo, prima di arrivare al cervello, va ad irrorare il cranio e tutta la faccia. Sembrerebbe che questo secondo ramo abbia una funzione di regolazione del sangue che giunge al cervello. E’ come una valvola di sicurezza, se i muscoli facciali sono tesi, diminuisce il sangue al cervello, se sono rilassati aumenta. Ulteriori studi, che risalgono ad una decina di anni fa, hanno rivelato che questo sistema di regolazione non riguarda tanto il flusso, quanto la temperatura del sangue arterioso che va al cervello. Questa regolazione termica avviena da parte del sangue venoso della giugolare esterna che dopo essere passato nella vena fronte-oculare, la più estesa, e quindi attraverso tutta la faccia, svolge una funzione di radiatore rispetto al sangue arterioso della carotide interna, da cui parte il sangue che va al cervello (naturalmente questo percorso e questa funzione del sangue viene qui esposta in modo molto semplificato). Se le tensioni facciali implicano un maggior afflusso di sangue venoso questa funzione di radiatore di raffreddamento del sangue venoso si indebolisce. Quindi il sangue arterioso può essere un po’ più caldo o un po’ più freddo, esso va ad irrorare prima il talamo e poi l’ ipotalamo, provocando un alterazione della temperatura di quest’ ultimo rispetto alla temperatura rettale (si parla di variazioni inferiore ad 1 grado). Ciò comporta una differenza nella regolazione dei neurotrasmettitori, quindi ad esempio della dopamina, e della serotonina, con le conseguenze comportamentali ed emotive che ne derivano. Se ad es. si aumenta la serotonina si percepisce euforia e benessere, se si ha un rilascio si instaura un umore depressivo. Vedete dunque che parlare del corpo vivente, vuol dire subito confrontarsi con il mind-body problem, e che l’ intento delle neuroscienze è quello di trovare una corrispondenza meccanicistica tra corpo e mente. In questa prospettiva, sofisticati esperimenti, sia di carattere psicosomatico, sia somatopsichico, hanno dimostrato che variazioni della temperatura ipotalamica dovute alla tensione o al rilassamento dell’ espressione somatica facciale e alle conseguenti variazione di flusso sanguigno di cui abbiamo parlato, sono correlabili a determinati stati mentali, più o meno piacevoli, o più o meno rilassati.
Da ciò sembrerebbe che per stare bene basterebbe abbassare la temperatura ipotalamica, magari mettendo un pezzo di ghiaccio sulla fronte e rinfrescandosi quindi il cervello. Ma anche se si tratta solo di una correlazione temperatura-stato d’ animo e non di una relazione causa-effetto, come d’ altronde giustamente le neuroscienze affermano, è impossibile correlare in modo ‘fine’, o anche solo in modo appropriato la sensibilità soggettiva di uno stato d’animo a stati d’ ordine biochimico.
Il problema è che il modello espistemologico delle neuroscienze porta spesso a scambiare l’ effetto con la causa, o comunque a considerare lo stato mentale come un epifenomeno del corpo. Per cui secondo questa prospettiva c’ è chi sostiene che le “tecniche del corpo” di cui abbiamo accennato prima, quelle di cui si occupa l’ antropologia teatrale, così come altre tecniche di manipolazione e di cura psicosomatica, come lo Yoga o il Tai Chi, e a altro, funzionerebbero per un effetto di tipo meccanico-digitale. In tal caso il danzatore-padre doveva conoscere una tecnica automanipolativa per controllare il suo stato psicofisiologico, nel senso di raffreddare il suo ipotalamo e quindi diminuire la traspirazione. Si nota subito che in ciò c’ è qualcosa di fortemente riduzionistico, e che la validità interna della soluzione neuropsicologica del mind-body problem desta numerose critiche e perplessità.
Come allora possono funzionare le tecniche psicocorporee che esploriamo nell’ antropologia teatrale, o comunque su quale principio si basa l’ addestramento, il training e l’ esperienza psicocorporea performativa capace di far concidere il soggetto con l’ azione, e di rendere quindi il ‘corpo trasparente’, nel senso di cui abbiamo fatto cenno?
Bene, per cercare di spiegarcelo veniamo al terzo ‘fatterello’, quello di natura mitologica, poiché, come ha insegnato Platone, o anche il celebre semiotico russo J.Lotman, il porre un discorso analogico accanto ad un discorso logico, può far scaturire fruttuose ipotesi ed interessanti riflessioni.
Si tratta di un mito teogonico che tutti più o meno conosciamo, ma di cui può giungervi nuova l’ interpretazione che intendo qui proporre. Per rinfrescarci la memoria, in due parole, veniamo dunque al mito. Esso racconta di Crono-Saturno, il dio del tempo, colui che aveva separato il Cielo-Padre Urano dalla Madre Terra, colui che operò questa separazione evirando il padre Urano, il quale dovette così abbandonare l’ abbraccio voluttuoso con la Terra, ritirarsi per sempre in cielo e lasciare così che sulla terra venisse una luce dipanatrice delle nebbie, portatrice della possibilità di vita. Dunque Crono ebbe per compagnia Rea, entrambi i coniugi sono riferiti al pianeta Saturno e alla dimensione mentale del tempo. Ma Crono, ogni volta che Rea concepiva un figlio se lo divorava. Egli aveva creato le condizioni per la vita tra la terra e il cielo, eppure poi divorava la vita per una sua voracità inarrestabile. Allora Rea per mettere a riparo dalle fauci del Padre il neonato Zeus, escogitò uno strataggemma. Appena nato, portò l’ infante Zeus nell’ isola di Creta e poi diede a Crono una pietra avvolta in fasce di tessuto affinché egli la scambiasse per il bebé. Infatti così avvenne ed egli se la mangiò.
Altre leggende narrano che un gruppo di guerrieri per ingannare Crono-Saturno incominciarono a danzare e a cantare, in modo da occultare i vagiti del piccolo Zeus.
Come possiamo interpretare questo mito? Se noi consideriamo che i miti e gli dei sono rappresentazioni di funzioni psichiche, di atteggiamenti archetipici (per dirla con Jung e con Hillman) allora possiamo dire che Crono e Rea sono i rappresentanti di una dimensione psichica che riguarda la temporalità, ovvero la capacità della mente più tipica – capacità che il corpo non possiede – di situarsi ‘mentalmente’ appunto, nel tempo e nello spazio indipendetemente dal ‘qui ed ora’, dal presente e dalla situazione concreta in cui si è. Questa capacità consente alla mente di svolgere una funzione analitica e astrattiva rispetto al presente, consente di interpretare il presente rispetto alla esperienza passata, di fare astrazioni e predizioni per il futuro, di ipotizzare un altrove. Si tratta dunque di una funzione della mente estremamente caratterizzante della natura umana, della sua preponderante psichicità. Tuttavia il rischio di questa qualità mentale saturnina, analitica ed astrattiva, è quello di divorare la vita, di divorare la sensibilità. In tal senso Zeus rappresenta la qualità vitale della mente, la sua natura sensibile che coincide con la corporeità e con la capacità di essere qui ed ora nel presente. Zeus è il centro dell’ universo perché rappresenta una esperienza oggettiva della propria soggettività, esso è l’ energia vitale che si manifesta in ciascuno di noi, indispensabile per costruire ogni cosa e senza la quale non si può creare alcunché. La nostra cultura, e le forme di scambio sociale, determinano un’ ipertrofia delle qualità saturnine analitiche, rispetto a quelle gioviali della sensibilità. Difficilmente ci troviamo in una dimensione di coincidenza psicofisica tra ciò che pensiamo e ciò che facciamo. Difficilmente adottiamo nel suo senso più profondo il detto popolare – alla Rabelais direi – ‘campa oggi che domani Dio ci pensa’, intendendo un modo di esserci che non è per oziare, ma per vivere e partecipare con saggezza ad una realtà presente. Il condizionamento socioculturale, politico, economico e semiotico delle relazioni interumane e della relazione con noi stessi ci porta ad esasperare la nostra capacità analitica a discapito della sensibilità, dell’ energia centrale-vitale. Percepiamo questa energia quasi solo nel suo venir meno, quando siamo malati, quando stiamo per svenire o per morire… ma difficilmente nella nostra cultura c’è un’ attitudine a coltivare questa energia e a preservarla. Attitudine che possiamo rintracciare nei riti e nella saggezza della cultura popolare e contadina e nei paradigmi di culture d’ origine tutt’ ora esistenti. Allora, tornando al nostro mito, ecco che i trucchi escogitati da Rea e dai guerrieri per ingannare Crono-Saturno e così far nascere Zeus, sono metafore di tecniche escogitate dalla mente per ingannare la mente. Bisogna dare alla mente qualcosa su cui concentrarsi affinché il sensibile addormentato possa germogliare, questo qualcosa può essere una tecnica psicocorporea o un’ arte, nella quale possiamo esercitarci ad essere presenti – qui ed ora – esercitarci a non disperdere le nostre energie a livello analitico quando ciò è inutile, superfluo o non funzionale per quanto attiene alla nostra operatività in quel momento e in quel processo.
Inoltre, questa dispersione della mente, questa evanescenza virtuale della mente che seduce ad un atteggiamento di continua inaderenza rispetto alla realtà vivente è un excessus mentis disfunzionale per quanto attiene al quadro complessivo della nostra salute psicosomatica. Tanto spazio viene dato all’ analisi e al discorso, ai media intimi e di massa, e molto poco all’ esperienza diretta e all’ umiltà che può derivare da un sacrificium intellectus, da un silenzio della mente che almeno di tanto in tanto possa farci prendere atto, magari con meraviglia e con un senso di gratitudine, che qualcosa fa sì che il nostro cuore batta e che il nostro respiro cerchi il suo ritmo naturale. Questa base di vita, è presente in ogni nostro comportamento, e in ogni nostra analisi mentale, che noi ne siamo coscienti oppure no; ma per il danzatore, per il Performer, per l’ artista lo sviluppo di questa coscienza è basilare al fine di rendere il suo corpo trasparente e la sua azione tutt’ uno con il suo essere autentico. Questo ‘essere autentico’ emerge quando, attraverso i trucchi di Rea e dei guerrieri, la mente abbandona il suo voler essere, predilige di porre l’ attenzione alle sue sensazioni percettive, piuttosto che alle sue interpretazioni, e quindi sospende i suoi pregiudizi, le sue pre-occupazioni e melanconie saturnine e semplicemente si pone ad osservare la sua qualità sensibile, il principio vitale su cui posa ogni cosa. Questo era il principio che aveva coltivato in sé il danzatore padre dell’ aneddoto grotowskiano, ed è questo principio che l’ antropologia teatrale cerca di investigare innanzitutto sul piano dell’ esperienza concreta e poi su quello delle parole. Così, a questo punto, per quello che è lo spirito attivo di questa disciplina, conseguente al principio di acuire la sensibilità al quale tanto esortava Artaud – ma anche Stanislavskij, e poi Grotowski, Barba, Brook e tutti coloro che hanno visto nel teatro una possibilità di esperienza e di crescita umana che va oltre il teatro e lo spettacolo – e così dunque che io ora vado a tacere, nella speranza che si moltiplichino le occasioni concrete per fare e per esperire, da parte di ciascuno di noi, quello che ho cercato di esprimere con l’ analitico strumento della parola. Dico ciascuno di noi perché il senso poietico del parateatro e dell’ antropologia teatrale non si rivolge tanto all’ attore o allo spettatore, ma all’ essere umano di ogni professione e di ogni età. Voglio solo aggiungere però, che anche quando la parola e la qualità mentale analitica della mente sono utili e necessari, anche in questo caso, la sensibilità può essere più o meno attivata, e se essa viene coltivata allenandoci all’ arte di essere qui ed ora (con pratiche e comportamenti affini alla nostra natura personale), essa si manifesta anche nelle parole e nei pensieri, e fa nascere un sentimento vitale, una coerenza tra sensibilità e senso, che aspira a fare e trasformare, a conoscere e a pensare con responsabilità e libertà. In questo senso la cura del corpo e della sua sensibilità, può farci pensare ad un corpo protrettico, un corpo autentico e trasparente, che esprime una coerenza organica tra natura vivente e cultura, impegno, umanità.
E’ così che Saturno si vivifica nei riti bacchici dei Saturnali. Invece di divorare il Puer, inteso come sensibilità e creatività, si unisce ad esso e diventa il giocoliere, il festoso, il magnanimo.
(vedi L’Anima che nutre il Senex e il Puer in Albedoimagination)
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Questo articolo è davvero interessante per le diverse angolature dalle quali affronta, senza risolverle, i problemi relativi al rapporto Mente/corpo – Corpo/mente; vi ho trovato al suo interno la singolare coincidenza del riferimento da parte degli autori citati, ad A. Artaud, un commediografo e scrittore francese che nei suoi scritti piuttosto folli, deliranti, pieni di frammenti di esperienze corporee sparse e dolorose e di pensieri persecutori che nell’esperienza corporea solo descritta come una “colata”, sembravano in lui trovare una potenziale, auspicabile esperienza di contenimento di sè e della propria autenticità smascherata dai “supplizi” inferti dalla società che lo rinchiuse in manicomio, infliggendogli elettroschok, che lo fecerono sentire martoriato nel fisico, nel corpo, con il quale si sentiva contemporaneamente io e non -io, morto e non morto e preda di un dolore assoluto per il quale non cercava rimedi o negazioni ma solo parole che gli permettessero di esprimerlo e che mai lo soddisfassero, tanto che spesso distruggeva e ricomponeva febbrilmente i suoi scritti, affermando:”Io distruggo perchè tutto ciò che proviene dalla ragione non dura…”. Artaud infatti nei suoi scritti inizia ad orientare il lettore ed il critico letterario, ma non solo, verso la condivisione di qualcosa che è di per sè impensabile come lo è la sua esperienza psicotica; egli traduce i frammenti di una esperienza corporea in parole utilizzate come schegge che rendano il senso di unn urlo che nasce da dentro e si esprime in continuazione in un’opera interminabile perchè, egli dirà”Non si può guarire la vita”, ma solo ascoltare. e percepire poichè è nell’atto percettivo il fondamento…..”La verità della vita è nell’impulsività della materia. Lo spirito dell’uomo è ”malato in mezzo ai concetti”. Non gli chiedete di soddisfarsi, chiedetegli soltanto di essere calmo, di credere che ha trovato infine il suo posto…..”. Questo autore, sarà ripreso come uno dei suoi riferimenti, non solo dal fondatore del Parateatro ma anche da uno dei maggiori psichiatri e psicoanalisti del 1900, Salomon Resnik, che ha dedicato la sua vita alla comprensione dell’esperienza corporea dell’uomo e nell’uomo legata alla dimensione spazio/temporalità, in tutte le sue diverse declinazioni, particolarmente quelle più patologiche dove corpo e mente si scindono ed il corpo, anzichè veicolo dell’emozione e della ragione nel loro reciproco rapporto, ne diviene, affermandosi al soggetto ed all’altro come tale, la sede della sua negazione, poichè come nel mito é Giove ad essere negato all’esperienza e così nella vita quotidiana dell’uomo moderno troppo abituato ad utilizzare la ragione per elaborare strategie (ovvero gli aspetti saturnini del sè) finalizzati al raggiungimento di qualche obiettivo, possibilmente con un fine economico o comunque, di guadagno di una posizione di “potere” (anche solo all’interno di rapporti interpersonali, spesso difensivamente), si nega senza esserne consapevole (tranne quando invece di tale consapevolezza, raggiunta in modi diversi, dall’introspezione all’esperienza ludico-artistico rivelatrice alla psicoterapia, soffre)il contatto con il corpo, nelle sue percezioni dirette senza le mediazioni immediate della ragione invadente, là dove questo contatto può essere fonte di per sè di piacere, per il semlpice fatto di esserci, essere cioè gioviale; così nell’uomo affetto da gravi patologie, quali alcune forme di schizofrenia, non è solo il dolore, differentemente da come si crede, ad essere temuto ma anche il piacere. Per questo motivo, il corpo, in questi casi, può essere negato, al fine di renderlo impensabile perchè” impercepibile” ma per far ciò, l’individuo può arrivare a compiere una vera e propria “Glaciazione”, come quelle di individui che per anni, terrorizzati da esperienze corporee, possono rimanere in dei veri e propri stati catatonici, al fine di negare qualsiasi percezione, qualsiasi esperienza di congruenza, di trasparenza o meglio, la loro unica trasparenza possibile non è più o non è mai stata quella della massima coincidenza tra “Essere, sentire e fare” ed in caso poi, pensare ma eventualmente quella dell’esistenza di un vissuto di “trasparenza” delirante che anzichè farli sentire come nel caso sopra dell’esperienza delle persone impegnate nel Parateatro di Grotpwsky, che sono radicate totalmente” nel mondo”, con il proprio Sè “nel Qui ed ora,” li fa invece sentire invasi ed alenati dallo stesso -cioè dal loro corpo e dal mondo e dal “tempo”(che viene magicamente negato)dato che il corpo è il primo fondamento del rapporto dell’individuo con il mondo- con esperienze sparse che andranno “raccolte” e fatte ri-migrare al suo interno per renderle poi successivamente pensabili.
Anche uno psicoanalista ed antropologo brasiliano, A. Ferrari, con molta esperienza di miti e riti delle popolazioni di origine, in particolare brasiliani, ha elaborato una teoria della mente e dell’esperienza umana estremamente simile, sotto certi versi, alla visione dell’esperienza parateatrale di Grotowski, cioè alla necessità per l’attore ed il performer di rendere il proprio corpo “trasparente”, rendendo non necessario pensare a ciò che con esso viene fatto tanto ormai è minimo o scarto tra persona ed azione ( e prima, la non necessità di riflettere ogni volta su quella stessa esperienza) al fine di Essere, non recitare; questo psicoanalista definisce questo processo, all’ interno della sua ipotesi teorica, l’ “Eclissi del corpo” volendo intendere che quando lo sviluppo avviene in modo armonico, l’individuo, può vivere in modo naturale “con” ed “attraverso” il proprio corpo senza dover continuamente pensare ad esso ed alle azioni che si devono compiere, perchè lo scarto tra persona ed azione, pur sempre presente diviene però minimo, poichè le azioni stesse vengono naturali e serenamente, mentre in caso contrario può esserci un ecccesso di pensiero su di esse ed una diminuizione della capacità e possibilità di utilizzarlo, il corpo, per vivere con piacere, anche solo per respirare o per parlare o giocare, camminare, perchè bisogna pensarci troppo, entrando in stati disarmonici di diverso tipo a livello di organizzazione corpo-mente.
Evidentemente, questi autori, pur partendo da presupposti ed intenti diversi sono rimasti tutti molto colpiti da processi simili, connessi al contatto con le popolazioni di origine ed i loro riti nel cui svolgimento è tuttora possibile rimanere ugualmente molto colpiti dalla grande congruenza che essi sembrano esprimere tra ciò che dicono, spesso con parole semplici e ciò che esprimono in modo molto sentito e pregnante, in cui evidenziano una grande presenza a sè stessi , una”immersione” nell’azione in atto nel “qui ed ora” e contemporaneamente, all’altro e rispetto ai quali è possibile notare la notevole differenza con la fievolezza, la rigidità ed anche la paura ed estrema presenza di una componente razionale e minore naturale socialità, di quelli analoghi, dei popoli occidentali, per i quali è molto più diffcile, anche a casa di diverse organizzazioni sociali e religiose dogmatiche, esprimersi liberamente ed in modo “trasparente a sè stessi” perchè ogni azione è in genere studiata per un fine, anzichè poter essere finalizzata solo ad “essere”.
Ed ora vado un pò a….respirare per “essere”….
P.S. lo psicoanalista argentio a cui ho fatto riferimento, Salomon Resnik, ha scritto sull’argomento cui ho accennato, un bellissimo libro, dal titolo “Glaciazioni”.
Un caro saluto a tutti/e
Elisa