Dalle arti ‘parateatrali’ alla ‘psicologia del profondo’, dal corpo all’ anima – Grotowski ed Hillman – si possono considerare due ‘ alberi maestri’ del fare e dell’essere.
di Pier Pietro Brunelli 5.11.98
Grotowski: l’ “Arte come veicolo” e il “Parateatro”
Jerzy Grotowski è stato un grande maestro del teatro contemporaneo, ma soprattutto è divenuto il massimo esponente di una ricerca che va al di là dello spettacolo, in cui arte, ritualità, performance aprono nuove possibilità per esplorare ‘attivamente’ fenomeni di carattere antropologico e psicofisiologico.
La ricerca di Grotowski ‘oltre il teatro’ si è evoluta fino al concetto di ‘ “Arte come veicolo”, al cui sviluppo ha collaborato in modo specifico T. Richard (il primo assistente di Grotowski presso il Centro di Pontedera). Un principio ‘energetico’ essenziale dell’ “Arte come veicolo” viene spiegato da Grotowski con le seguenti parole:
[…] mi riferisco alla verticalità; possiamo vedere questa verticalità in categorie energetiche pesanti ma organiche (legate alle forze della vita, agli istinti, alla sensualità) e altre energie più sottili. Poiché non si tratta semplicemente di cambiare di livello, ma di portare il grossolano al sottile e di condurre il sottile verso una realtà più ordinaria, legata alla ‘densità’ del corpo. E come se cercassimo di entrare nella higher connection.
Le metafore energetiche a cui si richiama Grotowski si possono riferire ad ‘energie primigenie’ che attraversano il corpo, ‘i corpi’, e tutto l’ ambiente vitale, e quindi possono essere avvicinate a diversi concetti: lo Yin e lo Yang, lo Hata, la Kundalini, lo Spirito Santo, lo Hau, il Mana, o anche la libido ‘sessuale’ di Freud, quella ‘numinosa’ di Jung, l’ orgone di Reich … concetti che indicano presenze e flussi non misurabili, capaci di dematerializzare e psichicizzare l’ esperienza del mondo e di evocare vie di espansione della coscienza. Comunque chiamiamo queste forze, e per quanto esse siano diverse concettualmente e sostanzialmente l’una dall’ altra, si tratta di comprendere che esse costituiscono le forme di un’ ‘energia’ che ha un senso concreto nella vita di ciascuno e nell’ ambiente di tutti.
Gli insegnamenti delle diverse tradizioni ed anche le conoscenze più avanzate della medicina psicosomatica indicano che questa ‘energia’ può essere ‘veicolata’ per mezzo di esercizi e pratiche psicocorporee individuali e di gruppo. Il maestro insegna all’ allievo una pratica così come se insegnasse la guida di uno speciale ‘veicolo energetico’; ma è l’ allievo che deve decidere dove andare, deve trovare la ‘sua’ via e diventare ‘maestro’ di se stesso…
Questo processo ‘autoiniziatico’, che caratterizza tutta la ricerca sull’ Arte dell’ Attore di Grotowski, ha comportato vere e proprie rivoluzioni copernicane nel modo di pensare e di fare teatro. L’ attore ‘grotowskiano’ infatti, deve sviluppare la stessa precisione e organicità di un attore della tradizione orientale (ad es. del teatro giapponese No o delll’indiano Kathakali), ma a differenza di questi deve riuscire ad esprimere la sua propria interiorità, e quindi deve elaborare i segni fisici ed espressivi della sua propria anima… Non si tratta dunque di eseguire perfettamente una specifica tecnica tradizionale, ma di fare in modo che la spontaneità del segno possa risultare tecnicamente perfettà, come se essa fosse diretta da una ‘guida interiore’ che è al tempo stesso millenaria e immediata, istintiva e spirituale, trasgessiva e rituale… Per mezzo di questa misteriosa ‘congiunzione degli opposti’, che viene ricercata attraverso un grande lavoro di training psicocorporeo e creativo, l’ attore-performer crea qualcosa che, prima di essere o di diventare uno spettacolo, è una profonda esperienza di se stesso. Affinché a questa esperienza avessero potuto avvicinarsi anche gli spettatori ‘non-attori’, Grotowski ha proposto sin dagli anni ’70 i “Progetti speciali” denominati “Parateatro”. Si tratta di lavori di gruppo guidati da maestri, basati su speciali training psicocorporei per lo sviluppo di una spontaneità rituale, orientata da tematiche di carattere archetipico e spirituale. Attualmente Rena Mirecka, principale interprete femminile di tutti gli spettacoli di Grotowski, ed Ewa Benesz (formatasi nel Laboratorium e con una lunga attività di collaborazione con la Mirecka), sono le più importanti maestre dell’ esperienza parateatrale.
Hillman: ‘Fare anima e mondo’
E’ interessante evidenziare una contiguità tra la ricerca grotowskiana e gli studi psicoanalitici di James Hillman – il più radicale e innovativo tra gli studiosi di area post-junghiana – poiché l’ “Arte come veicolo”, nel suo senso metaforico, ma anche in senso pragmatico, esprime una prassi concreta del “Fare anima” (motto fondamentale di Hillman).
Del resto lo stesso Hillman, nella sua opera di Re-visione della psicologia, fa espliciti riferimenti all’ arte e all’ “attuazione” dell’ anima attraverso la corporeità teatrale e il rituale.
Gli argomenti hillmaniani sono di eccezionale portata e complessità; qui ci limitiamo a dire che secondo la “Psicologia archetipica” , gli archetipi, costituenti le matrici della psiche individuale e collettiva, sono entità immaginali a cui si possono far corrispondere “personizzazioni” mitologiche che governano tutti i campi della vita umana, e che sovrastano la volontà e la dimensione dell’ Io. E’ come se l’ Io venisse soggiogato dalle forze archetipiche degli dei, dinnanzi ai quali l’ ‘eroe’ (ovvero ciascun essere umano) ha come sola possibilità quella di relativizzare l’ Io e di “fare anima”, dove l’anima è l’indefinibile campo esperienziale in cui si muovono e vivono gli archetipi, le fantasie e le presenze immaginali consce e inconsce (gli dei, i demoni, gli spiriti, i pensieri, le idee…). Quindi, per Hillman “fare anima” vuol dire agire e vivere in modo che le correnti psichiche, patologizzabili piuttosto che logicizzabili, vengano riconosciute, esperite, ritualizzate a partire da un sacrificio della propria soggettività coscienziale, al fine di ‘servire l’ anima’ . Dunque, si ‘fa anima’ quando si praticano attività che ci pongono in diretto collegamento con il proprio ‘mondo interno’, e si scopre che questo ‘mondo’, come ha detto Jung, è abitato da un “piccolo popolo” di cui siamo il ‘monarca-servitore’…
Per “fare anima”, dunque, vi sono molteplici “veicoli”, dalle discipline spirituali alle diverse tecniche psicoterapeutiche, dalle arti alla poesia, dal viaggio avventuroso all’ innammoramento. Hillman raccomanda di non lasciarsi rinchiudere entro una “posizione autoritaria, sia pure garbata e raffinata”, dove le possibilità immaginative rischiano di restare imprigionate in una ideologia, o nella rigidità di un quadro dogmatico-disciplinare. L’ anima vuole essere libera di seguire le sue vie, ed ogni rigidità dell’ Io deve necessariamente apprendere come assecondare le forze che lo posseggono e lo ispirano. In tal senso la prospettiva del “fare anima” è contigua a quella dell’ “antropologia teatrale” e dell’ attore-performer grotowskiano, poiché tecnica e disciplina si armonizzano organicamente con la spontaneità e la passionalità della propria individualità. Potremmo dire che l’ Arte dell’ attore si serve di “tecniche del corpo” della tradizione (espressione che Grotowski e Barba hanno ripreso dall’ antropologo Marcell Mauss) per esprimere la propria interiorità e quindi per “fare anima”. Non si tratta di limitarsi ad eseguire meccanicamente rituali prefissati, di apprendere formule e dottrine e di osservare precetti più o meno mistici, ma di aprirsi con diversi mezzi, tradizionali e innovativi, all’ esperienza dell’ anima, scoprendone la sua forma unica ed individuale, la sua propria vocazione, come se essa fosse la voce solista di un grande coro collettivo e universale. “Arte come veicolo” e “Fare anima” presumono dunque sia un ascolto del mito e degli insegnamenti tradizionali e sia una poiesis ispirata dalla propria individualità inventiva e creativa.
Tutto ciò però ha un suo senso ultimo se tentiamo di collegare l’ arte e la creatività non solo ad una cura dell’ anima personale, ma anche all’ Anima mundi, alla società e quindi ad un concreto sentimento di responsabilità verso i problemi dell’ umanità e verso la natura in tutta la sua grandezza materiale e spirituale.
Dice Hillman:
Che ne è dell’ anima mundi e del fare anima mundi? La condizione del mondo, la sofferenza dei suoi oceani e dei suoi fiumi, della sua aria, delle sue foreste, la bruttezza delle sue città e il depauperamento dei suoi terreni ci hanno certamente costretto a sentire che non possiamo andare nel mondo per il nostro tornaconto e che in realtà stiamo distruggendo le nostre anime con l’ atteggiamento che pretenderebbe di salvarle.
Hillman ci fa notare che un atteggiamento estremamente individualistico, di lavoro ad oltranza su se stesso, senza che vi sia una apertura concreta alla solidarietà, alla polis, alla natura, finisce con il dis-fare l’ anima, poiché essa non è una meità, non è solo mia, ma è anche della collettività e dell ‘ ambiente vitale. Perciò “Fare anima” vuol dire per certi aspetti anche occuparsi attivamente e politicamente del mondo e della società.
E’ naturale che ciò avvenga perché di fronte ad un mondo che precipita nella sofferenza, non vi può essere una felicità dell’ anima fondata solo sulla ricerca di un personale pacifico Nirvana.
Il lavoro dell’ attore-performer, secondo Grotowski, non può riguardare forzosamente il campo politico-sociale, a meno che la sua anima non senta un’autentica vocazione in tale direzione . In ogni caso, le idee grotowskiane e hillmaniane sembrano chiare: se l’ Arte è un veicolo per “fare anima”, questo veicolo metterà in moto pensieri e operosità affinché anche l’ anima mundi possa “progredire energicamente nel bene “